Non
so, sinceramente, se tutto quello che scrivo abbia sempre un senso.
Non
so, sinceramente, se l’abbia per qualcun altro al di fuori di me.
Non
lo so e basta. Sinceramente.
Sono
anni che ogni giorno mi dedico ad appuntare i miei pensieri, per inventare
storie, e trovare il modo e la forma migliore per raccontarle.
E
tutto questo a prescindere da ciò che ne sarà.
Ho
lasciato tutto il resto, nel senso di ciò che mi dava da vivere, un vero lavoro. Perché così viene considerata
la libera professione nella società moderna.
Una
vero lavoro.
E
l’ho fatto quando ho capito che proseguire su quella strada non mi avrebbe
portato che nella direzione, e non mi riferisco all’avvicinarmi ad un luogo
d’arrivo, sbagliata.
Da
quando ho iniziato a percepire questa esigenza, che poi è diventata necessità
tanto da rendermi inevitabile la scelta che oggi mi rende sereno, ho cominciato
a sentirmi libero.
Quello
di scrivere – e ricordare così a me stesso quello in cui credo – è il mio vero
lavoro.
Senza
la preoccupazione di sbagliare, con la consapevolezza di potermi ravvedere, con
la semplicità di essere l’unico giudice di me stesso.
Senza
giudizio o pre-giudizio.
Sembra
estremo pensarlo ma il punto a cui sono arrivato del mio percorso mi fa sentire
che la posizione scelta, e da molti criticata come azzardata, in realtà è stata
la più corretta che potessi prendere.
E,
per amore di verità, l’unica.
Mi
piace scrivere, da non molto mi piace pure leggere, trovo che questa sia la
forma più completa – alta – che l’uomo abbia di esprimere se stesso. La propria
natura, i propri pensieri, le proprie idee senza che necessariamente si debba
passare attraverso l’interpretazione di terzi soggetti.
Come
nell’arte, per esempio, solo i più sensibili vengono toccati nel profondo dei propri
istinti. La moltitudine insegue invece opinioni emesse da chi s’arroga il
diritto di decidere per loro. Ma questo capita, ed è capitato, nella storia
dell’umanità. E sempre capiterà.
Ognuno
dovrebbe avere la possibilità, e la capacità, di avere opinioni proprie a
prescindere da quello che gli viene raccontato. Purtroppo viviamo in un’epoca
in cui troppo semplicemente si giudicano le persone per quello che dicono. E
basta quello. Non si ha la curiosità di scoprire se ciò che c’hanno raccontato
è stato poi seguito da fatti che confermano le parole usate nel farsi precedere.
Sembra non esserci mai l’interesse di confrontare le anticipazioni con quello che
poi accade realmente.
Oggi,
apparentemente un giorno uguale a tanti altri, ho sentito che il momento di
occuparmi di una cosa a cui penso da molto è giunto. E farlo – occuparmene –
con le armi di cui dispongo e cerco di utilizzare. Mi scuso per la parola armi,
credo di non averla mai utilizzata da quando scrivo e pochissime volte in vita
mia, ma essendo in guerra purtroppo non si può fare altro che usare quelle. Ognuno
ha le proprie, molti le usano a caso, qualcuno con precisione per raggiungere i
propri scopi. Che spesso prevedono l’annientamento degli altrui diritti e delle
altrui vite.
Sono
in un momento particolare della mia vita, non perché stiano accadendo cose così
speciali, ma per il fatto che ho definitivamente abbandonato ogni tipo di
filtro – o censura - che forse a volte sono stato spinto ad usare soprattutto
nei miei pensieri, nelle opinioni, nella ricerca del mio punto di vista.
Inconsciamente
è da un po’ che lo faccio, consciamente rileggendomi, ho capito d’essere
arrivato al limite perciò posso solo andare in un’unica direzione. Proseguire
senza mai più voltarmi indietro, senza più esitare, mai più dubitando delle me
stesso e della mie riflessioni.
Posso
apparire presuntuoso, lo so, molti da sempre me lo rinfacciano ricordandomi
l’importanza della mediazione nei rapporti interpersonali. Ma fare carriera non
m’interessa, voglio essere onesto, consolidare una credibilità intellettuale evitando
di appoggiarmi comodamente a ciò in cui non credo.
Orrido.
Mi
guardo attorno e trovo greggi di artefatti che sanno tapparsi il naso di fronte
al denaro e al potere che hanno invece così acquisito. E pur sapendolo sorridono
sereni sui loro SUV, sbeffeggiando chi noi li apprezza o li critica, indicandoti
come invidioso che a differenza loro non sei riuscito a farcela.
Ultimamente
ho concretizzato vari lavori – è da poco che definisco in questo modo ciò che
faccio forse perché ero ancora infarcito dai condizionamenti che m’impedivano
di pensare allo scrivere in questa maniera – dove ho trattato argomenti per me
essenziali oltre che sostanziali.
Ho
cercato di dare una forma decente al mio fare, evitando di mediare attraverso
modelli letterari che non mi appartenessero, ho provato ad evitare inutili giri
di parole quando era semplicemente necessario chiamare le cose con il proprio
nome.
Sono
riuscito a scrivere di verità e di ricerca di se, di sesso e noia, di follia.
Di gioie e dolori.
Cose
che mi appartengono, non in senso patologico, ma temi attorno ai quali ho
sempre ruotato – forse in maniera ammirata tanto da mitizzarli a volte – usando
l’arma dell’ironia come compromesso espressivo per disinnescare i miei limiti.
Essere
grottesco mi ha permesso di parlarne anche se, intimamente, ho sempre sentito
che non bastava. Il prete bigotto che
si nascondeva in me, pronto ad uscir fuori al solo scopo di influenzarmi, è
riuscito spesso ad avere la meglio.
Ma…vi
sono dei momenti, nella vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa
un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al
quale non ci si può sottrarre…e oggi per me quel momento è arrivato.
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