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sabato 23 novembre 2013

Non so, sinceramente, se tutto quello che scrivo abbia sempre un senso.
Non so, sinceramente, se l’abbia per qualcun altro al di fuori di me.
Non lo so e basta. Sinceramente.
Sono anni che ogni giorno mi dedico ad appuntare i miei pensieri, per inventare storie, e trovare il modo e la forma migliore per raccontarle.
E tutto questo a prescindere da ciò che ne sarà.
Ho lasciato tutto il resto, nel senso di ciò che mi dava da vivere, un vero lavoro. Perché così viene considerata la libera professione nella società moderna.
Una vero lavoro.
E l’ho fatto quando ho capito che proseguire su quella strada non mi avrebbe portato che nella direzione, e non mi riferisco all’avvicinarmi ad un luogo d’arrivo, sbagliata.
Da quando ho iniziato a percepire questa esigenza, che poi è diventata necessità tanto da rendermi inevitabile la scelta che oggi mi rende sereno, ho cominciato a sentirmi libero.
Quello di scrivere – e ricordare così a me stesso quello in cui credo – è il mio vero lavoro.
Senza la preoccupazione di sbagliare, con la consapevolezza di potermi ravvedere, con la semplicità di essere l’unico giudice di me stesso.
Senza giudizio o pre-giudizio.
Sembra estremo pensarlo ma il punto a cui sono arrivato del mio percorso mi fa sentire che la posizione scelta, e da molti criticata come azzardata, in realtà è stata la più corretta che potessi prendere.
E, per amore di verità, l’unica.
Mi piace scrivere, da non molto mi piace pure leggere, trovo che questa sia la forma più completa – alta – che l’uomo abbia di esprimere se stesso. La propria natura, i propri pensieri, le proprie idee senza che necessariamente si debba passare attraverso l’interpretazione di terzi soggetti.
Come nell’arte, per esempio, solo i più sensibili vengono toccati nel profondo dei propri istinti. La moltitudine insegue invece opinioni emesse da chi s’arroga il diritto di decidere per loro. Ma questo capita, ed è capitato, nella storia dell’umanità. E sempre capiterà.
Ognuno dovrebbe avere la possibilità, e la capacità, di avere opinioni proprie a prescindere da quello che gli viene raccontato. Purtroppo viviamo in un’epoca in cui troppo semplicemente si giudicano le persone per quello che dicono. E basta quello. Non si ha la curiosità di scoprire se ciò che c’hanno raccontato è stato poi seguito da fatti che confermano le parole usate nel farsi precedere. Sembra non esserci mai l’interesse di confrontare le anticipazioni con quello che poi accade realmente.
Oggi, apparentemente un giorno uguale a tanti altri, ho sentito che il momento di occuparmi di una cosa a cui penso da molto è giunto. E farlo – occuparmene – con le armi di cui dispongo e cerco di utilizzare. Mi scuso per la parola armi, credo di non averla mai utilizzata da quando scrivo e pochissime volte in vita mia, ma essendo in guerra purtroppo non si può fare altro che usare quelle. Ognuno ha le proprie, molti le usano a caso, qualcuno con precisione per raggiungere i propri scopi. Che spesso prevedono l’annientamento degli altrui diritti e delle altrui vite.
Sono in un momento particolare della mia vita, non perché stiano accadendo cose così speciali, ma per il fatto che ho definitivamente abbandonato ogni tipo di filtro – o censura - che forse a volte sono stato spinto ad usare soprattutto nei miei pensieri, nelle opinioni, nella ricerca del mio punto di vista.
Inconsciamente è da un po’ che lo faccio, consciamente rileggendomi, ho capito d’essere arrivato al limite perciò posso solo andare in un’unica direzione. Proseguire senza mai più voltarmi indietro, senza più esitare, mai più dubitando delle me stesso e della mie riflessioni.
Posso apparire presuntuoso, lo so, molti da sempre me lo rinfacciano ricordandomi l’importanza della mediazione nei rapporti interpersonali. Ma fare carriera non m’interessa, voglio essere onesto, consolidare una credibilità intellettuale evitando di appoggiarmi comodamente a ciò in cui non credo.
Orrido.
Mi guardo attorno e trovo greggi di artefatti che sanno tapparsi il naso di fronte al denaro e al potere che hanno invece così acquisito. E pur sapendolo sorridono sereni sui loro SUV, sbeffeggiando chi noi li apprezza o li critica, indicandoti come invidioso che a differenza loro non sei riuscito a farcela.
Ultimamente ho concretizzato vari lavori – è da poco che definisco in questo modo ciò che faccio forse perché ero ancora infarcito dai condizionamenti che m’impedivano di pensare allo scrivere in questa maniera – dove ho trattato argomenti per me essenziali oltre che sostanziali.
Ho cercato di dare una forma decente al mio fare, evitando di mediare attraverso modelli letterari che non mi appartenessero, ho provato ad evitare inutili giri di parole quando era semplicemente necessario chiamare le cose con il proprio nome.
Sono riuscito a scrivere di verità e di ricerca di se, di sesso e noia, di follia. Di gioie e dolori.
Cose che mi appartengono, non in senso patologico, ma temi attorno ai quali ho sempre ruotato – forse in maniera ammirata tanto da mitizzarli a volte – usando l’arma dell’ironia come compromesso espressivo per disinnescare i miei limiti.
Essere grottesco mi ha permesso di parlarne anche se, intimamente, ho sempre sentito che non bastava. Il prete bigotto che si nascondeva in me, pronto ad uscir fuori al solo scopo di influenzarmi, è riuscito spesso ad avere la meglio.
Ma…vi sono dei momenti, nella vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre…e oggi per me quel momento è arrivato.

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