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venerdì 31 luglio 2015

post 162: orso (incipit - edito da Narcissus 2013)


Non ho paura della solitudine. Io solo con me stesso sto bene. Mi basto, almeno non soffro la compagnia di qualcuno indesiderato, so quando tacere i miei pensieri rispettando la necessità di silenzio. E’ così sottovalutata la possibilità che si ha di starsene zitti, anche con se stessi, nell’intimità della propria mente.
Soli son quelli che si spaventano a rapportarsi con se stessi.
Corrono inquieti ricercando una presenza fisica a cui proporsi in discorsi auto referenzianti che riguardano solo una cosa: la paura d’affrontarsi. E nemmeno l’idea che la solitudine possa evocare il silenzio ultimo della morte può spaventarmi: penso a chi non c’è più grazie al suo ricordo, in fondo nessuno è mai ritornato alla vita tanto da poterci fare un chiacchierata per comprendere momenti e situazioni ai viventi sconosciute. E perciò dovrei spaventarmi? Per qualcosa di ignoto, per la paura del distacco, o forse più banalmente per il timore di soffrire anche fisicamente nel trapasso dal terreno a ciò che esiste dopo?

Solo, per me, significa pieno.
Di me stesso, dei miei pensieri, espressi senza filtro o censura.


Momento che vale per quello che è; l’occasione migliore per comprendere i propri desideri senza dover usare mille parole che non riuscirebbero nemmeno a delinearne il contorno.

giovedì 30 luglio 2015

post 161: manipolatore (inedito 2015)


Era mia paziente da quasi due anni e fino a quel giorno aveva raccontato solo parti di se impedendomi di cogliere la complessità dei suoi disagi. Come avesse il timore che esporsi completamente l’avrebbe portata fuori dall'equilibrio che era riuscita a costruire. Che pur non piacendole era l’unico che le consentiva di vivere. O almeno così credeva.
Quel giorno la seduta iniziò in modo diverso. Stentava, io non le diedi appiglio guardandola in silenzio per quasi un quarto d’ora, era in difficoltà sembrando sul punto di scoppiare.
Poi si decise.

“Ho pensato a lungo, forse troppo tempo, ho deciso di parlare con qualcuno di cui mi fido. Lei. E farlo in totale sincerità dicendo ciò che realmente mi opprime. Perché so che Lei può fare, mi può indicare, o forse mi può aiutare a capire. Oppure niente di tutto questo. Ma non importa perché sento di volerlo fare per me stessa e quindi lo farò”.

Mi guardò negli occhi mentre con voce tremolante pronunciava quelle parole. Poi abbassò lo sguardo mentre in viso le si dipingeva un sorriso dolce. Quello di una donna innamorata. Pensai per un attimo che anche lei fosse caduta nel classico transfert paziente-analista, ma non aveva dimostrato fino a quel momento i caratteristici segni di quel tipo di rapporto nevrotico, esigente, tenero e sensuale. Che vuole l’esclusività, diviene geloso, infine ostile. Non era quello il caso e percepii un barlume di luce in fondo al tunnel che quella donna aveva percorso fino a quel momento. La guardai annuendo con il capo per invitarla a proseguire.

“Di mio marito le ho già a lungo parlato. Quasi tutto ciò che le ho raccontato corrisponde alla verità anche se molte parti mi sono ben guardata di toccarle.
La verità. E’ l’uomo che ho amato, che mi ha dato due figli, con il quale ho sempre pensato di condividere la vita.
E nonostante tutto quello che abbiamo fatto insieme io da tanto tempo sono infelice, mi sento inadeguata ed a volte ingrata, con lui e con quello che di buono la vita mi sembra regalarmi. Come se in ogni occasione mancasse un pezzo, una sensazione di incompiutezza che mi deprime, nonostante io provi e riprovi ogni volta ad ignorare quel fastidio. E sono giunta alla conclusione consapevole di essere sbagliata e dover lottare con quella mia parte sbagliata che m’impedisce d’essere felice. Solo colpa mia. Come del resto faceva mio padre che fin da piccola usò con me una maniera piuttosto dura, per lui ero una cavalla bizzosa da domare, quindi decisione e rigore altro che comprensione e coccole. E ci ho creduto, a lungo, fino a sentirmi accartocciata su me stessa senza vie di fuga o risoluzione.
Ho permesso a tutti gli uomini della mia vita di fare quello che hanno fatto assecondandoli obbediente.

Qualche giorno fa ho fatto un sogno.
Mi trovavo in un bar ed accanto a me al bancone c’era un uomo che beveva il caffè. Lui fu gentile; semplicemente mi passò lo zucchero con un sorriso. Ma non quei sorrisi che sotto intendono qualcosa di viscido. Era diverso. Non saprei definirlo se non in questo modo.
Dopo alcune parole scambiate parlando del caldo di questa estate, mi chiese se mi andava di sederci ad un tavolo per finire il caffè e la chiacchiera, accettai come fosse la cosa più ovvia da fare. In realtà la cosa più ovvia che sentivo di fare.
Parlammo per quasi tre ore.
Ci raccontammo le nostre vite bevendo altri tre caffè e fumando tante sigarette.
Poi ci salutammo cordialmente senza nemmeno scambiarci il numero di telefono. Io ero felice così, lui pure, non ci fu reciprocamente bisogno di dirci altro o fare altro. Andava molto bene così, io sorridevo e lui pure, ci salutammo con la mano mentre c‘allontanavamo in direzioni opposte.
Mi sono sentita a disagio?
No.

Ecco, professore, è questa la parola che quel sogno mi ha lasciato: saper dire no”.

Si fermò per un istante come a voler prendere fiato, io sorrisi, mi parve una persona nuova.

“Mio marito è un manipolatore.
Non dico che lo sia perché è un uomo cattivo o un sadico, non lo so e nemmeno m’importa saperlo, semplicemente è una persona che ha creato un’influenza su di me e la usa distorcendo nel suo verso ogni discorso, ogni azione, ogni intenzione con il solo scopo di avere potere su di me. Controllarmi, trarre benefici sempre a mio danno e suo favore, ponendo sempre le sue esigenze in risalto e mai ringraziandomi quando lo assecondo.
Forse un po’ cattivo lo è…pure sadico, forse”.

Non riuscì a trattenere una risatina divertita per quella lucida analisi psicologica. Poi tornai serio e mi rimisi in ascolto.

“Ha giocato da sempre con le mie emozioni, mi ha fatta cadere dentro ad un senso di colpa infinito, m’ha convinto di non saper far nulla e di non valere nulla. Senza di lui sarei potuta essere solamente una donna perduta. Mi ha fatto rinunciare alle mie esigenze ed ai miei valori sostituendoli con i suoi. E più l’ho assecondato più è diventato esigente chiedendomi sempre e oltre senza ritegno: e io gli ho dato tutto calpestandomi e continuando a sentirmi inadeguata per lui. Per paura, si lo ammetto, per paura di dover affrontare qualcosa che nemmeno riuscivo ad immaginare. Una vita senza di lui, come avrei fatto con i miei figli, i miei genitori m’avrebbero criticata per tutta la vita restante. Tutti gli altri m’avrebbero condannata come una pazza nevrotica che si ribellava ad un uomo magnifico, generoso, gran lavoratore e di sani valori. Perché è così che lui appare e ci tiene molto a farlo percepire, in realtà è molto altro, è spesso violento nei toni. E non solo”.

La guardai evidentemente sgranando gli occhi come a chiederle se avesse subito violenza fisica.

“No, quella no, però a volte certe parole fanno peggio delle botte.
Qualche settimana fa voleva fare sesso, io non ne avevo voglia, perciò tentai di svicolare. Lui diventò nervoso, alzò il tono, mi urlò che da tempo ero fredda con lui. Che mai ero carina, che mai lo cercavo, che mai lo baciavo in pubblico. E che quando lo facevamo io ero un pezzo di ghiaccio. Io ero come paralizzata, proseguì dicendomi –intimandomi- che se non cambiavo rapidamente atteggiamento lui si sarebbe guardato attorno, non voleva fare sesso con una donna come me. Fredda e disinteressata come una prostituta che lo fa solo per i soldi.
Voleva la passione e io non ero in grado di averne perché dentro, nel mio profondo, il senso di schifo che provavo per lui era così radicato da rendermi impensabile solo sfiorargli le labbra con lei mie.
Quella sera però non ebbi la forza di dire niente. Del ribrezzo che provavo quando s’avvicinava, del suo modo infantile di approcciarsi, nell’incapacità di farmi eccitare, del suo solo parlare e concludere poco. Come se per lui l’importante fosse sempre quello di trovare giustificazione di fronte ad una mia possibile critica. E alla fine di ogni discussione la colpevole ero io, le responsabilità erano mie, la persona che doveva cambiare e migliorare ero io.
Feci sesso nel bagno, io appoggiata alla finestra, lui dietro ansimante.
Chiusi gli occhi.

La sera successiva il sogno del caffè con quell’uomo al bar, lo vidi per la prima volta per quello che era, un omuncolo.
Bastò un fatto casuale a farlo esplodere, in realtà era nervoso quando rincasò, una pasta non troppo riuscita fu sufficiente.
Diede due forchettate prima di posare la posata sul bordo del piatto con fare abbastanza teatrale. Di solito avrei rabbrividito e sarei corsa ai fornelli scusandomi: quella sera invece mi scappò una risata. In realtà quella pasta al sugo non era un gran che ma questo non era il punto della questione. Lui mi guardò ridere e restò stupito forse spiazzato da quella mia reazione. Disse, in maniera non troppo carina, se non mi vergognassi di cucinare una cosa del genere ad un uomo che si era spaccato la schiena tutto il giorno e cosa aspettassi a preparare qualcosa di decente.
Invece di scappare come al solito lo guardai dritto negli occhi: gli chiesi se lui ritenesse ciò che aveva appena detto una richiesta ragionevole? Sgranò gli occhi e non riuscì a rispondere anche perché subito gli domandai cosa, secondo lui, io avrei dovuto rispondergli di fronte alla sua imposizione. Iniziò a balbettare, il suo piglio diventò meno sicuro, sbiascicò qualcosa che mi parve una proposta di piatto alternativo. Disse una cosa tipo –fettina in padella- e senza farlo proseguire oltre lo freddai: me lo stai chiedendo o ne stiamo solo parlando?
A quel punto, non sapendo più cosa fare, alzò la voce svegliando i bambini che iniziarono a piangere disperati. Lui proseguì insensibile e non avrebbe più smesso se non gli avessi detto no con tono deciso.
No appunto.
No, ad essere trattata senza rispetto.
No, a non poter esprimere i miei sentimenti, le mie opinioni i miei desideri.
No, a non poter stabilire le mie priorità.
No, a non poter avere un diritto senza sentirmi in colpa.
No, alle minacce fisiche, mentali ed emotive.
No, a non poter avere una vita propria.

Sono due settimane che non ci rivolgiamo la parola, lui oramai mi evita denotando timore, io però devo concludere il discorso iniziato e sistemare le cose una volta per tutte. Non per vendicarmi ma semplicemente perché sento che il tempo è giunto. Il tempo per essere quella che sono e prendere in mano la mia vita perché so di essere in grado di farlo”.

Mi guardò quasi trattenendo il fiato in attesa d’una mia risposa.

“E’ pronta. Buona fortuna per tutto il resto della sua vita”.

Quella fu l’ultima nostra seduta e non c’incontrammo più.


mercoledì 29 luglio 2015

post 160: gli esistenti (incipit - inedito 2013)

Gli esistenti sono quelli che esistono semplicemente perché sono. All’improvviso appaiono, si lasciano notare solo quando vogliono farsi incontrare, amano starsene all’ombra rendendosi indefinibili. Il loro vivere è puro insieme di frangenti, mai vivono quello che non gli appartiene, sempre fuggono da ciò che li possa far risaltare. Sono semplicemente questo: al di fuori di ogni schema rituale tanto che, a chi capita di conoscerli nel profondo, il più delle volte provocano grande scompenso e irreversibile turbamento.
Per loro l’esistenza non è necessità.
Perché essenziale è solo il caso.

martedì 28 luglio 2015

post 159: carne (incipit - paulolanz 2015)



A volte bisognerebbe avere l’istinto d’un giocatore di poker che sa fermarsi al momento giusto. Anche se non si sa giocare a carte, perché non si conoscono le regole o mai le si sono imparate, nonostante i bassi istinti continuino ad incitare solo perché si sta vincendo una partita.
Alzarsi dal tavolo, quando è il momento, come liberarsi dal corpo per dare libero spazio all’anima.
Semplice.
Eppure non ce la facciamo.
Fuggiamo anzi rifuggiamo.
Mistifichiamo per giustificarci.
Perché siamo schiavi.
Della carne.
La nostra.
Che ci fa sensibili e suscettibili, avidi ed irresponsabili, subdoli e senza scrupoli, aridi, goduriosi. Sappiamo di non dover stare ad alcun tavolo per giocare tutto o poco, non per la paura di perdere, per non inquinare la natura con ciò che non le appartiene. Ma non lo facciamo perché il richiamo è irresistibile. “I denti della concupiscenza trafiggono con morsi dolci e soavi” e l’equilibrio è tale solo in un preciso attimo. Quasi indecifrabile, eppure bramiamo per la sua ricerca, pensando a quel puro brivido sensibile credendo che solo immaginandolo possiamo essere vivi.
Siamo in bilico, ce ne rendiamo conto, ma non facciamo niente per evitarlo. Abbiamo presunzione e sfrontatezza, esaltiamo il nulla riconoscendogli addirittura l’equilibrio, viviamo solo in fretta ciò che accade come fossero tutte occasioni irripetibili.
Perché abbiamo il terrore del domani.
Del dopo.
Del poi.
Riuscendo a godere solo di sensibilità epidermica continuando a rimandare quel pensiero.
Ma il domani arriverà.
Quel domani nel quale, invece, continueremo ad essere.


mercoledì 8 luglio 2015

post 158: missing my muse (Bordeline - ed. Narcissus 2013)



Intro
Non pensi che certe cose possano accadere proprio a te e quando invece capitano sembrano talmente impossibili che istintivamente si ignorano, t’imponi che non esistono, cerchi di creare una normalità nell’anomalia della situazione.
L’inaspettato e l’imprevedibile rendono deboli ed insicuri.

Mia moglie Lucia, anzi ex moglie Lucia, se ne andò tempo fa. In realtà sono due anni, tre mesi, ventitré giorni, le ore non le conto più.
Non voglio sembrare patetico nel contabilizzare pure i minuti precisi passati da quel momento, tutti dicono che è stato come un parto travagliato e doloroso, ma separarmi da quella persona deve rappresentare per me una sorta di nascita verso una nuova vita più tranquilla e ricca di serena libertà.
Sarà…
Ma cosa ne sanno loro, gli altri sono bravi a dare sentenze, ma i fatti li conoscono realmente?
Loro non li hanno vissuti direttamente ma li hanno solo sentiti raccontati, come pensano di sapere cosa sia giusto o sbagliato, le situazioni che decidono le cose della vita non si possono valutare così superficialmente.
Oggi per me stare a pancia sopra guardando il soffitto bianco del mio soggiorno rappresenta il maggior svago mentale possibile ottenibile. Non che sia depresso o rassegnato, sento di essere abbastanza sereno. Diciamo quasi.
Com’è quel detto? meglio soli che male accompagnati.
La saggezza popolare è una materia ricca di spunti e riflessioni.
So che dovrei alzarmi ed accendere il cellulare, forse qualcuno mi ha cercato. Certo stare qua sdraiato a fare voli mentali per trovare i motivi e le spiegazioni rilevando ogni dettaglio spazio-temporale, ed anche quelli senza spazio e tempo, può apparire come una procedura da uomo sull’orlo di una crisi di nervi. Ho forse bisogno di un’analisi seria o solo di un analista, va bene, non posso buttarmi via così. Del resto sono sempre uno scrittore che ha fatto sognare una generazione, la critica che osannante m’ha definito la risposta italiana alla letteratura soft-hard-core d’oltre oceano. Lo scrittore maschio contemporaneo capace d’essere l’attendibile risposta ad Erica Jong, colui che ha contrapposto alla "scopata senza cerniera" della scrittrice americana, la più intellettuale e rarefatta “scopata con la muta da sub”.
Lucia era la mia musa e ora che l’ho persa mi sento perduto: lei era l’ispirazione costante, ora sento un vuoto che mi rende sterile. Non so reagire, il mio taccuino mi guarda interrogativo dalle sue pagine bianche.
All’improvviso squillò il telefono.
Emanuele Vittorio Beccaria, noto come Bec69, sbuffò sdraiato sul suo tappeto d’orso con lo sguardo fisso al soffitto.
“Risponde la segreteria telefonica di Bec69...non posso o non voglio rispondere…forse sono morto o è solo questione di tempo…se volete parlare, fatelo…io non ascolterò e quindi non vi risponderò…mai…”
Un attimo di silenzio dopo il fischio. Una voce squillante di donna riempì quel plumbeo clima funebre.
“Bec…ci sei?…Sono Eleonora…so che mi ascolti…comunque, tra due ore passo a prenderti…andiamo per il fine settimana al mare. Preparati…porta tutto…costume, telo da mare, sigarette, taccuino…baci”.

Il fatto
Bec si alzò dal suo capezzale con grande sforzo. Ma lo fece.
Preparò faticosamente il suo bagaglio: una borsa ed uno zaino. Nella borsa il necessario per il mare ed un cambio: canotta, pareo, infradito. Nello zaino una stecca di Winston Classic Red, accendini, il suo taccuino Moleskine, matite e penne.
Tornando all’abbigliamento Bec, dalla separazione in poi, si vestiva prevalentemente in quel modo. Non curava più di tanto la sua immagine tantomeno l’igiene personale. Pensò che forse, per rispetto all’amica Eleonora, fosse carino lavarsi i denti.
Viaggio in auto, alla guida Eleonora, chiacchierata. Bec però prese il sopravvento innescandosi nel solito monologo riguardante la perdita della sua ispirazione. Eleonora non fu troppo accondiscendente con l’amico: secondo lei il loro era un rapporto stanco, finito, non faceva più sesso, erano come fratelli, e quindi è normale che sia finito.
Bec cercò di ribattere: per lui l’ex-moglie era molto altro. Lo ispirava costantemente: era un vulcano che eruttava stimoli a carattere sessuale.
Forse, osservò Eleonora, quel suo stimolarlo non era altro che un suo modo sadico d’informarlo d’una sua vita parallela, di quello che faceva con altri e che invece avrebbe voluto fare con lui. Forse. E probabilmente lo considerava un asessuato o addirittura un gay.
Bec rimase gelato da quell’ultima affermazione, guardò serio l’amica che guidava impegnata. Balbettò.
“Credi davvero che io…sia gay?”
Eleonora rise di gusto. Lo stava prendendo in giro ma forse la sua ex lo pensava veramente. Seriamente decise di fargli una confessione.
“Io lo so che tu sei un maschio etero, sei il mio sogno trasgressivo preferito. Leggerti mi eccita, stare con te è una delle cose che mi rendono veramente felice…”
Bec sorride lusingato, anche lui era molto affezionato alla ragazza. E la trovava pure una bella donna, attraente. Un bel fisico, bei capelli, occhi scuri, e pure molto simpatica.
“Perché non c’hai mai provato con me?...sarai mica gaio?”
E ridacchiò. Bec restò senza parole, non riuscì a rispondere a tono, ma poi sorrise e s’avvicinò baciandola sulla guancia.
“Sei proprio ga…”
Non la face finire e le stampò un bacio in bocca. Con la lingua. Qualcosa che sapesse poco di omosessualità.
Eleonora bloccò l’auto a bordo strada.
Si abbracciarono e ri-baciarono con passione.
Dopo alcuni secondi si guardano, si sorrisero, Eleonora ripartì.
Arrivano alla casa degli amici di Eleonora: un posto meraviglioso, sopra una scogliera a picco sul mare. ma per raggiungere la casa c’era da percorrere un lungo sentiero a gradoni molto ripido. Bec scese svogliato dall’auto ipotizzando la fatica da fare e si lo zaino nel bagagliaio. Per un po’ non ci pensò ma poi, con il passare delle ore, ci pensò. Non gli andava di rifarsi quella scarpinata, tanto là dentro c’erano solamente il taccuino e la stecca di Winston Classic Red. Dopo due ore gli venne voglia di fumare, pensò per un attimo al suo taccuino. Si sentì strano senza, ma fu solo una sensazione. Decise che avrebbe scroccato sigarette a raffica.

La situazione
Bella casa con vista mozzafiato, tre camere così suddivise:
Coppia 1: padroni di casa sistemati nella stanza principale con vetrata su strapiombo, bagno a vista in camera, jacuzzi a quattro posti. Coppia sulla quarantina, lui belloccio brizzolato dal fisico asciutto, lei abbronzata color mogano, biondissima, fisico scolpito dalla palestra, prorompente seno rifatto. Simpatici e accoglienti. Lui Marco, lei Gaia.
Coppia 2: amici dei padroni di casa. Sistemati nella camera accanto a quella principale. Coetanei dei proprietari, cordiali. Lui, Filippo, sempre sorridente con una pancia morbida ma non esagerata, lei, Anna, morettina compatta dalla stessa abbronzatura di Gaia, la proprietaria. Seno rifatto, stesso stile, probabilmente stesso chirurgo estetico.
Coppia 3: Bec ed Eleonora. Collocati nella terza camera, la più piccola, senza vista, ma ben arieggiata.
Aperitivo di benvenuto, carino, anche se un po’ stile villaggio vacanze, senza ghirlande hawaiane. Il contesto apparve subito rilassato, grandi sorrisi, tutti cordiali e disponibili.
La cosa che colpì maggiormente Bec fu la modalità dell’accoglienza: con molto contatto, baci e abbracci, niente di morboso, ma qualcosa di molto confidenziale e rilassato.
Abbigliamenti minimi. Le donne in topless d’ordinanza e micro perizoma, Marco il proprietario, con pareo a fiori, Filippo con costume da surfista.
Eleonora si spogliò subito adeguandosi alla situazione. Non c’era nessun imbarazzo, Bec notò gli occhi dei due maschi esplorarla attentamente, e le attenzioni delle due donne farsi più convinte.
Bagno al mare, non comodissimo da raggiungere –una nuova lunga scalinata- caletta isolata di sabbia bianca.
Pomeriggio piacevole anche se Bec non ha mai amato stare al sole.
Ovviamente tutti si misero messi in totale libertà, nudi.
Solo olio solare a proteggere i corpi.
Verso il tramonto nuovo aperitivo in spiaggia: super alcolici a nastro, qualche cannone d’erba.
Salì il livello, risate e ammiccamenti, risalirono verso la casa.
Bec era cotto. Gaia con la coppia d’amici uscirono per fare una spesa. Eleonora si fece una doccia. Bec s’addormentò sul comodo lettino sotto il porticato, guardando il panorama, godendosi la fresca brezza marina.
D’improvviso si svegliò: una serie di rumorose chiacchiere divertite lo destarono.
Marco, il padrone di casa, correva nudo. Bec lo notò muoversi attraverso le finestre. Sentì Eleonora ridacchiare.
Dopo un attimo Marco gli si fece incontro, vestito. Meglio, è coperto con il pareo a fiori di prima, ma pareva nascondere in modo innaturale la zona pelvica che sembrava rigonfia.
Frase di circostanza di Bec riguardo la bellezza del panorama, risposta adeguata senza nessun tentennante imbarazzo da parte di Marco.
Eleonora apparecchiò la tavola semivestita.
Bec fu invaso dalla necessità di scrivere: ma non aveva con se il suo taccuino, arraffò in giro un quotidiano, un pacchetto di klinex, trovò una penna.

Il sospetto
1° scenario: equivoco. Bec si è immaginato tutto confuso dall’alcool e l’erba fumata.
2° scenario: Marco ed Eleonora si stavano approcciando quando lui s’è svegliato, ma si trattava di un gioco innocente dovuto appunto all’alcool e all’erba fumata.
3° scenario: Marco ed Eleonora sono più che amici, forse amanti. E tutto questo a prescindere dall’alcool e all’erba fumata.
Bec fu intrigato dalla situazione, scattò in lui la necessità di nuove tracce ed indizi.
La serata: cena a base di pesce, ottimo vino bianco, tutti molto rilassati e divertiti.
All’una tutti a dormire.
Ma Bec non riusciva a prendere sonno.
Era sveglio, vigile, passò un’ora seduto sotto al porticato a riempire di appunti, ipotesi, congetture, i pochi pezzi di carta di cui disponeva. Gli fecero compagnia lo sciabordio delle onde illuminate dalla luna piena.
Alle 2 captò un movimento. Poi vide una luce accendersi e poi subito spegnersi: girandosi istintivamente vide un paio di figure, una bionda – sicuramente Gaia visto che solo lei aveva la chioma di quel colore – e probabilmente altre due. Ma non ne era certo.
Bisbigli e sussurri.
Poi silenzio.
Bec tornò a scrivere bulimicamente.
Di tanto in tanto distoglieva l’attenzione dai suoi fogli per tendere l’orecchio cercando di captare altri eventuali rumori provenienti dall’interno.
Alle 3 e mezza una porta si aprì e poi chiuse velocemente: il cigolio prodotto fu inequivocabile. Piedi nudi che si mossero veloci nel buio.
Dopo alcuni secondi una risatina soffocata.
Alla 4 Bec tornò in camera, entrò nel letto, Eleonora dormiva beatamente.
Il mattino successivo Bec si svegliò. Era solo a letto. Si alzò, andò in cucina per prendersi un caffè. Non c’era nessuno in giro. Gli parve una cosa strana; decise di prepararsi un altro caffè per essere ben sveglio e capire meglio ciò che stava accadendo.
Secondo caffè. Si sentì lucido.
Con passo felpato iniziò a perlustrare la casa. Passò davanti alla camera di Filippo ed Anna, intravide dalla porta socchiusa Filippo nudo in piedi, di fronte a lui una chioma bionda agitarsi.
Bec si scostò velocemente per non essere visto. Dal suo improvvisato rifugio sentì dei bisbigli provenire dalla camera padronale. Istintivamente sbirciò, la porta era aperta. Nella jacuzzi c’erano Marco abbracciato ad Anna e Eleonora. Nudi e avvinghiati in un nugolo di schiumose bollicine.

Il sospetto della notte che meglio si delinea
1° scenario: era tutto un gioco scatenato dall’immaginazione? Eppure gli effetti dell’alcool e dell’erba fumata dopo tanto tempo normalmente sarebbero dovuti sparire. Forse stava equivocando.
2° scenario: Marco, Eleonora ed Anna si stavano semplicemente rilassando nell’idromassaggio, Filippo e Gaia invece sono amanti e stavano approfittando della situazione per pasticciarsi un poco. E tutto questo a prescindere dall’alcool e all’erba fumata anche perché tutti sembravano molto lucidi.
3° scenario: nulla di ciò che accadde era un equivoco. Le due coppie ed Eleonora erano un gruppo d’impenitenti porcelloni che s’ammucchiavano selvaggiamente appena possibile.
Bec tornò nel portico, arraffò un pacco di tovaglioli di carta, scrisse furiosamente.
Verso sera lui ed Eleonora se ne andarono.
Sulla lunga scalinata che li riportava alla macchina Bec confidò all’amica di avere avuto una grande idea per una storia.
Eleonora rise.
“…sapevo che ti bastava un piccolo spunto per partire come un toro e caricare a testa bassa…”
Bec non capì.
Arrivarono all’auto, chiese spiegazioni all’amica.
Eleonora gli spiegò tutto.
Tutto quello che avevano vissuto in quei due giorni era stata una messa in scena da lei organizzata per tentare di spronarlo. Un gioco che gli potesse dare lo spunto per tornare a scrivere.
“E per completezza d’informazione Gaia è mia sorella, Anna la mia migliore amica, Filippo e Marco sono una splendida coppia di amici gay”.
Bec prese il suo taccuino, raccolse tutti gli ultimi pensieri, Eleonora felice guidava verso casa.

Epilogo
Così tornò l’entusiasmo e ritrovai l’ispirazione. E senza una musa che credevo necessaria.
L’ispirazione l’hai dentro; si ha soltanto il bisogno che qualcuno, quando ti perdi, te la faccia ritrovare. Ricordandotelo.

giovedì 2 luglio 2015

post 157: essere felici (inedito 2015)



Aveva cercato d’incontrarmi telefonandomi ogni giorno per quasi due settimane. Non era uno dei miei pazienti ma il mio migliore amico, non mi sarei sentito a mio agio ad accoglierlo in studio, proposi una cena e così riuscimmo a vederci. Fu un susseguirsi di chiacchiere ma sentivo che “al punto” non s’era avvicinato.
Poi all’improvviso le sue parole finirono, come se fino a quel momento gli fossero servite a riempire uno spazio pieno d’imbarazzo, finalmente sentii che eravamo di realmente fronte. Lo guardai e sorrisi come a fargli capire che poteva raccontare. Buttò giù d’un sorso il caffè, s’accese una sigaretta, era tirato in viso. Esordì abbassando lo sguardo e mi sembrò che le parole gli si fossero strozzate in gola.
Mi venne da sorridere, non riconoscevo l’amico che era sempre stato un fratello maggiore, sicuro schietto e deciso. Il dubbio o l’incertezza non facevano parte di lui. La paura non ero mai riuscito ad intravvederla nei suoi occhi.
Ma lì, di fronte a me in quello stato, mi sembrò così piccolo ed indifeso.
Alzò lo sguardo e lessi insofferenza nei suoi occhi, come ne fosse impregnato in profondità, non riusciva a muoversi.
Gli appoggiai la mano sulla spalla e per un attimo sembrò tornare a respirare dopo una lunga apnea.
Non gli servirono parole, il disagio che lo bloccava spiegava meglio di qualsiasi monologo possibile, quei lunghi discorsi preliminari dove apparentemente aveva toccato l’argomento moglie e figli erano stati sufficienti a farmi capire il peso della responsabilità che si sentiva addosso, la paura di far soffrire per una scelta che andasse nella direzione di ciò che sentiva, spiazzato per aver compreso chi era e percepirlo indispensabile per continuare a vivere. Si stava distruggendo.

“Siamo incapaci ad essere felici perché non siamo abituati a considerare ciò che esiste al di là d’una frase di circostanza che fin da bambini abbiamo imparato a ripetere come un mantra. “Voglio essere felice”. Ne siamo talmente convinti da pensare che basti desiderare la felicità per viverla realmente credendo che quello sia tutto ciò che ci serve e ci basta, non percepiamo null’altro e diventiamo inconsapevolmente succubi d’un pensiero che appare assoluto, invece è vuoto e pieno solo di nulla. Ci siamo imposti e piegati ad uno schema da seguire per adeguarci a ciò che il mondo in cui viviamo fa ed ha sempre fatto. Ed all’apice di questo deformarci arriviamo a considerare l’amore solamente ciò che fa soffrire, sicuri che senza dolore l’amore non esiste, continuiamo come masochisti a cercarne qualche granello un po’ ovunque. Quasi fosse la necessaria conferma ai nostri dubbi che ci spinge a modificarci, modellarci, mascherarci da qualcuno che non siamo. E intanto le persone giuste ci passano davanti e nemmeno ce ne accorgiamo perché siamo troppo occupati ad accoppiarci con quelle sbagliate. Addirittura vivendoci se non sposandole.
Ma il giorno in cui la sofferenza colma la nostra resistenza l’istinto di sopravvivenza ci fa per un attimo staccare da quella condizione, allora e solo allora, riusciamo a vedere altro. La verità che sempre è sfuggita d’improvviso ci fa aprire a persone che sappiamo, senza averne prova, capaci di sconvolgerci la vita. Semplicemente perché ogni volta che li avremo di fronte ci verrà spontaneo chiederci se siamo veramente felici e non sentiremo forzatura nel domandarcelo e nel darci una risposta sincera. Tutto cambierà d’improvviso. Smetteremo di tenere gli occhi chiusi per paura della solitudine, smetteremo di idealizzare i momenti belli passati come esempi da ripetere per essere felici dimenticando invece che erano solo dei momenti, smetteremo di accoppiarci o farci accompagnare pensando a quello come l’unico modo per togliersi una volta per tutte il problema dell’amore.

Ricordi quella storia dell’uomo perso nel deserto che vaga senza meta alla ricerca disperata della salvezza? Cosa scelse quando all’improvviso, dopo una lunga e faticosa salita nella sabbia sotto un sole cocente, si trovò da un lato una bellissima donna che lo invitava a seguirla e dall’altra una bottiglia d’acqua? Non esitò un attimo e prese l’acqua. Perché necessario era sopravvivere. Quella donna era un probabile momento di grande divertimento senza una sopravvivenza certa. L’istinto ebbe il sopravvento.

Posso dirti solo una cosa fratello mio: impara ad amarti veramente e così facendo troverai davanti a te solo chi ti ama.
Fallo e non smettere mai.
Questa è l’unica possibilità che si ha per trovare la strada da seguire per raggiungere la felicità che tanto desideriamo”.


Mi guardò negli occhi per un istante, erano lucidi, fece un profondo respiro e poi m’abbracciò.

mercoledì 1 luglio 2015

post 156: noia, estratto cap. 1 (Gli esistenti – inedito 2013)



         Mi chiamo Marco Aurelio, ho 42 anni, e faccio il geometra.
Sono sposato da quasi tredici anni con Claudia e insieme abbiamo due figlie: Aurelia di otto anni e la piccola Domizia di quasi tre.
         Questo sono io e non c’è molto altro da dire.

Se non per il fatto che preferisco farmi chiamare Mario perché non ho nessun tipo di legame caratteriale, morale, fisico con Marco Aurelio il grande imperatore, filosofo e scrittore romano del quale porto lo stesso nome. Un confronto onestamente impietoso, lui saggio e retto io apatico e solitario, lui il politico che favorì l'emancipazione degli schiavi io geometra diplomato solo al terzo tentativo alle serali con 36 su 60, lui sovrano capace e guerriero valoroso io marito anonimo e padre lacunoso.
Quindi è meglio che tutti continuino a pensare che mi chiami Mario.
Credo che questo possa bastare per raccontarmi, perché così appaio e voglio apparire a chi mi conosce: penso non ci sia veramente altro da dire sul mio conto.

In realtà qualcosa d’altro ci sarebbe.
Sono una persona che evita ogni tipo di confronto cercando ad impegnarsi in qualcosa che possa distrarre sperando di superare l’istintiva noia di vivere che mi permea.
E questa, fondamentalmente, è la mia caratteristica principale.

E poi, continuando ad essere sincero, nemmeno ci riesco a cercare d’impegnarmi perché nella sostanza non riesco a farlo. Mi muovo sempre velocemente, sono ossessionato dal concludere il prima possibile, vivo ogni situazione come un supplizio. Perché tutto ciò che devo fare mi annoia e l’unica cosa che mi riesce è quella di rapportarmi sempre e solo con me stesso. Per fuggire con i miei pensieri.

Quando è iniziato tutto ciò?
Avevo all’incirca dieci anni, ero al campo e giocavo a pallone con i miei compagni di scuola, si trattava di una partita importante contro un’altra classe della stessa scuola. C’erano molte persone a bordo campo, maestre, genitori -tranne i miei-, tutti i ragazzini della scuola e pure molte persone sconosciute. Al momento d’iniziare nessuno voleva stare in porta così mi misero anche se non l’avevo mai fatto. Dopo dieci minuti per un fallo di mano l’arbitro ci diede un rigore contro: tutti urlavano, chi mi dava consigli, chi mi diceva di buttarmi, chi già mi derideva. Insomma, l’avversario calciò, io rimasi immobile sulla linea di porta. Un gol senza rischio. I compagni mi guardarono con odio perché non avevo ascoltato i loro consigli, non mi ero buttato, avevo solamente subito le urla dei denigratori. Tentarono e riuscirono a farmi sentire in colpa.
La partita proseguì e nessuno riuscì più a segnare. All’ultimo minuto un clamoroso fallo di mano sulla linea di porta avversaria ci procurò un rigore: potevamo pareggiare. Nessuno della mia squadra si propose per calciare, presi l’iniziativa, andai dritto al dischetto. Sarà stato per quel senso di colpa che mi sentivo ancora addosso, volevo segnare, dovevo farlo. E cancellarmi in un sol colpa l’ombra che mi portavo dal mio essere restato immobile. Tutti urlavano, chi mi dava consigli, chi diceva al portiere di buttarsi, chi mi derideva.
Misi la palla su dischetto: presi una breve rincorsa e calciai.
Ne uscì una lenta ciabattata che sospinse la palla con traiettoria rettilinea nelle mani del portiere che, rimanendo immobile sulla linea di porta, parò.
Lui lo fece.
Triplice fischio, fine della partita, fine della mia carriera di calciatore.
Lo so che non si deve “…aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore…” ma in quell’occasione conobbi il repentino passaggio –nel lasso di tempo trascorso fra i due rigori– dalla solidarietà e condivisione alla cupa e buia solitudine.
Restai immobile in mezzo al campo mentre tutti si allontanavano.
Pensai per qualche attimo a quello che avevo vissuto.
Un senso di noia pervase globalmente il mio umore, fu la prima volta che lo provai, me ne tornai a casa e non parlai mai più con nessuno del gioco del calcio.

Quello fu l’inizio di tutto.