A volte bisognerebbe avere l’istinto d’un giocatore di poker che sa fermarsi al momento giusto. Anche se non si sa giocare a carte, perché non si conoscono le regole o mai le si sono imparate, nonostante i bassi istinti continuino ad incitare solo perché si sta vincendo una partita.
Alzarsi
dal tavolo, quando è il momento, come liberarsi dal corpo per dare libero spazio
all’anima.
Semplice.
Eppure
non ce la facciamo.
Fuggiamo
anzi rifuggiamo.
Mistifichiamo
per giustificarci.
Perché
siamo schiavi.
Della
carne.
La
nostra.
Che
ci fa sensibili e suscettibili, avidi ed irresponsabili, subdoli e senza
scrupoli, aridi, goduriosi. Sappiamo di non dover stare ad alcun tavolo per
giocare tutto o poco, non per la paura di perdere, per non inquinare la natura
con ciò che non le appartiene. Ma non lo facciamo perché il richiamo è irresistibile.
“I denti della concupiscenza trafiggono con morsi dolci e soavi” e l’equilibrio
è tale solo in un preciso attimo. Quasi indecifrabile, eppure bramiamo per la
sua ricerca, pensando a quel puro brivido sensibile credendo che solo immaginandolo
possiamo essere vivi.
Siamo
in bilico, ce ne rendiamo conto, ma non facciamo niente per evitarlo. Abbiamo
presunzione e sfrontatezza, esaltiamo il nulla riconoscendogli addirittura l’equilibrio,
viviamo solo in fretta ciò che accade come fossero tutte occasioni irripetibili.
Perché
abbiamo il terrore del domani.
Del
dopo.
Del
poi.
Riuscendo
a godere solo di sensibilità epidermica continuando a rimandare quel pensiero.
Ma
il domani arriverà.
Quel
domani nel quale, invece, continueremo ad essere.
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