Ricordando e riflettendo.
Globalizzazione.
A fine luglio 2001 ci fu il G8 a Genova.
Fui invitato, da parte di un gruppo di persone che conoscevo
e che si stava organizzando da tempo, ad unirmi alla loro spedizione. La tensione
saliva più si avvicinava quel giorno, ricordo come quella loro carica mi parve subito
stranamente ostile, mi sembravano pronti a scattare come molle cariche. Continuavano
a ripetere e ripetersi slogan di un altro tempo come fossero mantra ai quali
aggrapparsi per cercare ulteriori conferme o forse giustificazioni. Mi dava
sinceramente fastidio quel clima. La loro idea, a quella maniera collettivamente
condivisa, era “far sentire forte” la propria voce. Nulla di violento dicevano,
una protesta pacifica garantivano, una pura dimostrazione d’idee politiche e
sociali assicuravano. Di certo agli antipodi di quel mondo che andava sempre
più globalizzandosi. Quella parola non piaceva proprio (ne a loro ne a molti
altri) e quando veniva usata li faceva ringhiare come cani pronti ad attaccare.
Non mi sentivo comodo a vederli, mi procuravano fastidio, declinai l’invito. E venni
criticato. Le mie sensazioni erano diverse perciò inevitabile fu per me quella
scelta. Fondamentalmente non ero distante dai loro punti di vista (e da quelli
di migliaia di altre persone che poi presenziarono) bensì nella modalità. L’ho
sempre pensato e poi constatato nelle occasioni in cui mi sono trovato vicino -
o nei pressi - di situazioni o movimenti di protesta, fin dal tempo delle
occupazioni all’università negli anni 90’, a varie manifestazioni pubbliche,
dalle piazze ai centri sociali, finendo oggi al Teatro Valle occupato.
Non ho mai creduto che qualcosa potesse cambiare solo perché
ci sono persone che urlano violentemente a squarciagola. Anche se possono avere
una parte di ragione.
Chi andò a Genova raccontò poi il delirio vissuto, le cariche
della polizia, le manganellate, i fumogeni, il panico e le tante corse con la
sensazione reale di rischiare la pelle solo voltando un angolo di strada. Il
tutto riportato con il piglio orgoglioso d’un sopravvissuto alla guerra, forse,
un reduce.
Sinceramente.
Da sempre penso alle persone che hanno questa modalità d’esprimersi,
nella maggior parte, come puri amanti del farsi
una scampagnata in compagnia, perché sono occasioni goliardiche unite spesso
al farsi le canne, a cantar insieme “Bella
ciao” sentendosi dei novelli partigiani in grado, con presunzione, di cambiare
il mondo. Certi di essere dalla parte giusta. Sordi al contraddittorio. Invasi
da uno spocchioso atteggiamento di superiorità. Niente di più.
Ma che ne sanno loro dei partigiani, mi sono sempre chiesto,
di quelle storie che molti di loro amano riportare come simbolo del patriottismo
più audace. Sapessero invece quanta ostilità si celava in tanti di quei
protagonisti, c’era il bene ma pure tanto male, molti furono quelli che colsero
l’occasione al volo per regolare i propri conti personali e posizionarsi in
posizioni di vantaggio attendendo il futuro che di li a poco avrebbero vissuto.
Odio l’arroganza di chi pensa che la propria visione sia quella giusta a
prescindere o solo perché sventola una bandiera rossa, chi s’arroga il diritto
di rappresentare ciò che si pensa debba essere – per ovvietà, anzi, banalità -
il mondo a sinistra, chi sente
d’esser l’unico autorizzato a sedersi vicino alla base, agli strati sociali più
deboli, a quelli da tutelare. Al popolo. Ma ne sono così sicuri o solo lo presumono?
Cosa vuole dire per loro, nella sostanza, esprimere opinioni? Semplicemente urlare
sfoghi al vento con quanta più voce possibile, e magari sottolinearlo menando le mani, ma son proprio certi
sia quella l’unica strada, la migliore?
Credo si tratti di pura ipocrisia.
E’ come oggi per i NO-TAV. Non significa esserlo solo per quello
che si vede, solo una piccola porzione di essi sono cittadini indignati, perché
gli stanno sfasciando il territorio e le attività davanti casa a causa di
progetti assurdi. Gli altri, quelli che si sono aggregati, fanno parte di
quella massa che più o meno ama fare
scampagnate. Ed ognuno di questi lo fa per un proprio piacere; chi per scontrarsi
con i poliziotti, chi per urlare cose che mai potrebbe dire nella propria vita,
chi semplicemente per farsi la solita immancabile canna in compagnia.
Ognuno è libero di pensare e poi fare quello in cui crede.
Personalmente mi sono sempre imposto di non scordare mai il senso di ciò che faccio,
innanzi tutto per tutelare me stesso, riconoscendomi semplicemente i veri
motivi che mi spingono a fare una scelta.
Per tutto questo non andai a Genova.
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