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lunedì 1 giugno 2015

post 146: personale







Pur essendomi promesso di non “usare” mai questo spazio per messaggi personali lasciandolo totalmente adibito alla scrittura sento necessario dover rompere la mia intenzione perché ho compreso che in certi momenti è necessario chiarire in modo esplicito.

Ho avuto giorni fa una lunga conversazione con una persona che stimo così profondamente da considerare ogni sua parola ed ogni sua osservazione utili alla mia crescita personale; ciò che mi rimane da quel confronto però è una parte vuota che sento necessario dover riempire.
Perché ho ascoltato parole come frustrazione, rabbia, insoddisfazione, delirio, responsabilità, modestia e presunzione. Applicate a me ed a quello che sono e quindi ciò che di me si legge. Apparendo, a chi si pone davanti ad un mio scritto, come fossero parte della mia essenza o della mia natura. In realtà un profilo immaginato e distante da ciò che sono, un definirmi in modo arbitrario, diventanto però marchio distintivo.

Voglio colmare questo vuoto prima che diventi equivoco definitivo, seppur basato essenzialmente sulla superficie, perché ciò m’infastidisce. Sento necessario chiarire una concetto: la differenza che esiste fra realtà e finzione.
Ovvero.
Tra chi si nasconde dietro la finzione per apparire migliore o semplicemente adeguato e chi non temendo giudizio -perchè lo intende solo "in senso" onesto e quindi lo rispetta- si pone secondo la propria natura appoggiandosi ai valori in cui crede.
Osservare un mondo, la società che lo compone, dove tutto si è trasformato in fiction è per alcuni insopportabile. Ed io sono uno di quelli. E questa realtà artefatta e precostituita, creata ad arte da chi dietro una quinta la controlla, ha reso tutto vacuo ed irreale tanto da portare i valori essenziali che dovrebbero dare equilibrio ai rapporti fra umani verso un baratro sempre più profondo e cupo. Scivolando sempre più giù, quasi senza accorgersene, e ciò che rimane è il nulla se non a volte una becera rappresentazione puramente accettabile. Di pensieri, di concetti, d’emozioni. E se qualcuno solamente si riferisce a questo scivolare la moltitudine lo indica come diverso. Ma pure peggio. Perché altro non si sa fare, affrontare qualcosa d’imprevisto classificandolo banalmente con biasimo, identificandolo come finto messia preda di deliri auto celebrativi.

Mi piace ridere, e non come diversivo alla noia, perché ciò che detesto è soffrire.
Non tanto per evitare un dolore acuto, come una botta violenta o una martellata sul dito, quello non mi spaventa. So bene, perché l’ho provato, cos’è un pugno preso dritto in bocca con il sapore del sangue che scende in gola, è come annegare.
Ma io parlo d’altro dolore.
Quello provato dall’ingiustizia, dal disequilibrio, dalle forzature meschine. Quello che produce una sofferenza insopportabile e quasi invisibile.
Dirlo o scriverlo, anche in alcune occasioni, basta a farti etichettare come un pedante assuefatto che sopravvive grazie all’auto commiserazione. Quel piangersi addosso, un vero sport nazionale mai troppo esplicito, è per me qualcosa di talmente inconcepibile soprattutto oggi che si è trasformato in un valore. Tutti hanno una scusa, pronta, e pararsi le spalle indicando sempre un cattivo. Un diverso che ce l’ha con loro, qualcuno talmente invidioso da fare cose orribili, l’auto assolversi garantendo e addirittura giurando d’aver fatto il possibile. Anzi più di quello.
Io mi guardo e scuoto la testa di fronte a questo mondo improbabile, guardo ciò che resta dopo essere passato dentro al vortice in cui viviamo, e rabbrividisco. Io sento altro, come se quella centrifuga avesse levato di dosso le maschere necessarie ad apparire adeguati, sento necessario fare i conti con ciò che della mia natura è restato.
Questo pesante disagio mi fa reagire.
Ogni mattino, ogni pomeriggio, ogni notte.
Ma come puoi fare, se non urlandolo, a dire che tu sei quello e non quell’altro? Che sei una persona che soffre perché sensibile al dolore, soprattutto quello ingiusto e soprattutto nei confronti di chi non merita o non può difendersi, come puoi fare? Solo urlandolo in ogni modo possibile.
Quel tuo richiamo istintivo viene però riassunto banalmente marchiandoti con l’indegno simbolo della frustrazione. O di più. Rancoroso, arrabbiato, insoddisfatto e critico. Malizioso. Disonesto.

Ma non sempre ciò che appare è ciò che è.
Questo sembra difficile da comprendere come fosse scritto in una lingua sconosciuta, morta, un concetto allontanato dalla mente a tal punto che anche i veri curiosi naturali tendono a fuggire, anzi, rifuggirne. Perché il curioso è istintivo e per natura s’avvicina, poi valuta ma secondo un’opinione pre-costruita senza riuscire ad opporsi, ed infine s’allontana. Perché il rischio è alto, esporsi senza la sensazione d’aver le spalle coperte. Non è per tutti, non è da tutti.
Io non sono arrabbiato, frustrato, o in cerca di rivincite o vendette.
Io desidero solo equilibrio.

Ho capito nella mia breve vita che i rapporti umani, come il lavorare ad esempio, diventano valori solo se li hai con persone che ti piacciono. Con chi si creano relazioni positive, anche affettive, l’attività diviene un mutuo rigenerarsi. Ma questo è un evento raro tant’è che lo assimilo al bere una sostanza tossica: che t’inquina dapprima l’ispirazione per poi scendere sempre più in profondità fino alla mente ed infine al cuore. Mi sono sentito tante volte avvelenato da questi che intanto mi lanciavano sguardi dai quali traspariva un’incapacità congenita di comprendere ma pure tante volte un cattiva fede insita che, da un certo giorno di parecchi anni fa, mi ha spinto a decidere di non voler più essere più classificabile. Decidendo di non avere un lavoro ufficiale. Perché non potevo e posso essere ciò che produco anche e soprattutto valutato nonché definito in termini economici. Ho scelto di non avere occupazione riconoscibile ne sentirmi obbligato a spiegarla sapendo che quello sarebbe stato l’unico modo per riprendere me stesso e vivere ogni mattino sarebbe stato un pieno di libertà creativa tale da impedirmi d’arenarmi su di un lavoro certo e accettato, con grande serenità, ricercando ogni volta una nuova strada e un nuovo spunto. La quotidiana necessità di trovare dentro di me la cosa da far “uscire” per dare un senso muovendomi e cercando nell’arco delle cose che m’appassionano perché semplicemente sento mie. Ho passato giornate, senza soluzione di continuità, saltando dal computer alla tela, dai pennelli al martello, dal legno al vetro, dalla lettura alla recitazione. Suonando la chitarra per poi ascoltare musica, leggendo poesie e poi guardando il cielo, dalla terra da scavare al bagno da pulire, stirare e passare l’aspirapolvere, cucinare un piatto nuovo per poi tornare al computer e concludere il pensiero iniziato ore prima come tutto fosse parte di un unico flusso. Anni consecutivi senza sosta. Dove ho compreso l’importanza di continuare ad affinarmi non accontentandomi più del buono ma aspirando a qualcosa di più alto. Sentendo la necessità di abbattere i limiti che ogni specifica attività svolta imponeva di seguire per essere, o credere di sentirsi, professionale. Io sono naturalmente un trasgressivo e questa imposizione m’ha imposto di ribaltare ogni concetto di convenienza, apparenza, appartenenza. Ho imparato a fidarmi di me stesso, non facendomi convincere dalle altrui convenzioni, senza paura d’ignorare lo stile come solo canone di riferimento, sondare me stesso senza pietà e senza sosta con la sola sicurezza datami dalla totale libertà che, come effetto collaterale, m’ha sempre portato lontano da una qualsiasi idea paurosa d'un fallimento. Partendo da pensieri mai compromessi, da qualcosa che non fosse che “il vero”, rassicurato dal fatto che la mia vita sarebbe stata guidata dalle ispirazioni. Ed in più: rinforzato dai dubbi quanto più la sfida diventava difficile e, paradossalmente, rasserenato dal non avere certezze. Assenza di convinzioni profonde che m’avrebbero invece impedito di vedere la realtà, senza mai scendere a compromesso alcuno con quel pensiero, contemporaneamente tenendolo a bada con la necessaria durezza di fronte ad ogni lampo di troppa considerazione verso me stesso.
Ho preso tutto ciò che veniva con la semplicità d’un bimbo capace di meravigliarsi senza mai dare importanze definitive e continuando a ripetermi, anche di fronte a situazioni che mi sarebbero convenute, “non importa, va bene così”. Perché quello che conta non è essere colui che arriva in anticipo o quello che ritarda sempre, se sto in un posto fisico o solo immaginato, se l’ho detto o l’ho sentito dire, se sono intelligente o totalmente stupido. Ho imparato a dire la verità, solo e sempre quella, a me stesso e di conseguenza solo quella posso dire agli altri. Ho imparato a chiamare le cose con il proprio nome, ad evitare le scorciatoie della mente, a cercare la verità dove sento possa trovarsi ignorando i posti sbagliati convincendomi invece fossero quelli giusti per comodità. Per questo ho imparato a riconoscere la bugia, che mi fa tremare, ma che in cambio mi regala una grande forza.


Ho imparato ad amare, e non solo me stesso, perché ho capito che oltre a me c’è sicuramente qualcosa di reale.

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