Pur essendomi promesso
di non “usare” mai questo spazio per messaggi personali lasciandolo totalmente adibito alla scrittura sento
necessario dover rompere la mia intenzione perché ho compreso che in certi
momenti è necessario chiarire in modo esplicito.
Ho avuto giorni
fa una lunga conversazione con una persona che stimo così profondamente da
considerare ogni sua parola ed ogni sua osservazione utili alla mia crescita
personale; ciò che mi rimane da quel confronto però è una parte vuota che sento
necessario dover riempire.
Perché ho
ascoltato parole come frustrazione, rabbia, insoddisfazione, delirio,
responsabilità, modestia e presunzione. Applicate a me ed a quello che sono e
quindi ciò che di me si legge. Apparendo, a chi si pone davanti ad un mio
scritto, come fossero parte della mia essenza o della mia natura. In realtà un profilo immaginato e distante da ciò che sono, un definirmi in modo arbitrario, diventanto però marchio distintivo.
Voglio colmare
questo vuoto prima che diventi equivoco definitivo, seppur basato
essenzialmente sulla superficie, perché ciò m’infastidisce. Sento necessario
chiarire una concetto: la differenza che esiste fra realtà e finzione.
Ovvero.
Tra chi si
nasconde dietro la finzione per apparire migliore o semplicemente adeguato e
chi non temendo giudizio -perchè lo intende solo "in senso" onesto e quindi lo rispetta- si pone secondo la propria natura appoggiandosi ai
valori in cui crede.
Osservare un
mondo, la società che lo compone, dove tutto si è trasformato in fiction è per
alcuni insopportabile. Ed io sono uno di quelli. E questa realtà artefatta e
precostituita, creata ad arte da chi dietro una quinta la controlla, ha reso
tutto vacuo ed irreale tanto da portare i valori essenziali che dovrebbero dare
equilibrio ai rapporti fra umani verso un baratro sempre più profondo e cupo. Scivolando
sempre più giù, quasi senza accorgersene, e ciò che rimane è il nulla se non a
volte una becera rappresentazione puramente accettabile. Di pensieri, di concetti,
d’emozioni. E se qualcuno solamente si riferisce a questo scivolare la
moltitudine lo indica come diverso. Ma pure peggio. Perché altro non si sa fare, affrontare qualcosa d’imprevisto classificandolo banalmente con biasimo, identificandolo come finto messia preda di deliri auto celebrativi.
Mi piace ridere,
e non come diversivo alla noia, perché ciò che detesto è soffrire.
Non tanto per evitare
un dolore acuto, come una botta violenta o una martellata sul dito, quello non
mi spaventa. So bene, perché l’ho provato, cos’è un pugno preso dritto in bocca
con il sapore del sangue che scende in gola, è come annegare.
Ma io parlo d’altro
dolore.
Quello provato
dall’ingiustizia, dal disequilibrio, dalle forzature meschine. Quello che
produce una sofferenza insopportabile e quasi invisibile.
Dirlo o
scriverlo, anche in alcune occasioni, basta a farti etichettare come un pedante
assuefatto che sopravvive grazie all’auto commiserazione. Quel piangersi
addosso, un vero sport nazionale mai troppo esplicito, è per me qualcosa di
talmente inconcepibile soprattutto oggi che si è trasformato in un valore. Tutti
hanno una scusa, pronta, e pararsi le spalle indicando sempre un cattivo. Un
diverso che ce l’ha con loro, qualcuno talmente invidioso da fare cose
orribili, l’auto assolversi garantendo e addirittura giurando d’aver fatto il
possibile. Anzi più di quello.
Io mi guardo e
scuoto la testa di fronte a questo mondo improbabile, guardo ciò che resta dopo
essere passato dentro al vortice in cui viviamo, e
rabbrividisco. Io sento altro, come se quella centrifuga avesse levato
di dosso le maschere necessarie ad apparire adeguati, sento necessario fare i
conti con ciò che della mia natura è restato.
Questo pesante disagio
mi fa reagire.
Ogni mattino,
ogni pomeriggio, ogni notte.
Ma come puoi
fare, se non urlandolo, a dire che tu sei quello e non quell’altro? Che sei una
persona che soffre perché sensibile al dolore, soprattutto quello ingiusto e soprattutto
nei confronti di chi non merita o non può difendersi, come puoi fare? Solo
urlandolo in ogni modo possibile.
Quel tuo
richiamo istintivo viene però riassunto banalmente marchiandoti con l’indegno
simbolo della frustrazione. O di più. Rancoroso, arrabbiato, insoddisfatto e critico.
Malizioso. Disonesto.
Ma non sempre
ciò che appare è ciò che è.
Questo sembra
difficile da comprendere come fosse scritto in una lingua sconosciuta, morta, un
concetto allontanato dalla mente a tal punto che anche i veri curiosi naturali
tendono a fuggire, anzi, rifuggirne. Perché il curioso è istintivo e per
natura s’avvicina, poi valuta ma secondo un’opinione pre-costruita senza
riuscire ad opporsi, ed infine s’allontana. Perché il rischio è alto, esporsi
senza la sensazione d’aver le spalle coperte. Non è per tutti, non è da tutti.
Io non sono
arrabbiato, frustrato, o in cerca di rivincite o vendette.
Io desidero solo
equilibrio.
Ho capito nella
mia breve vita che i rapporti umani, come il lavorare ad esempio, diventano
valori solo se li hai con persone che ti piacciono. Con chi si creano
relazioni positive, anche affettive, l’attività diviene un mutuo rigenerarsi.
Ma questo è un evento raro tant’è che lo assimilo al bere una
sostanza tossica: che t’inquina dapprima l’ispirazione per poi scendere sempre
più in profondità fino alla mente ed infine al cuore. Mi sono sentito tante
volte avvelenato da questi che intanto mi lanciavano sguardi dai quali traspariva
un’incapacità congenita di comprendere ma pure tante volte un cattiva fede insita
che, da un certo giorno di parecchi anni fa, mi ha spinto a decidere di non
voler più essere più classificabile. Decidendo di non avere un lavoro
ufficiale. Perché non potevo e posso essere ciò che produco anche e soprattutto
valutato nonché definito in termini economici. Ho scelto di non avere
occupazione riconoscibile ne sentirmi obbligato a spiegarla sapendo che quello
sarebbe stato l’unico modo per riprendere me stesso e vivere ogni mattino
sarebbe stato un pieno di libertà creativa tale da impedirmi d’arenarmi su di un lavoro
certo e accettato, con grande serenità, ricercando ogni volta una nuova
strada e un nuovo spunto. La quotidiana necessità di trovare dentro di me la
cosa da far “uscire” per dare un senso muovendomi e cercando nell’arco delle
cose che m’appassionano perché semplicemente sento mie. Ho passato giornate,
senza soluzione di continuità, saltando dal computer alla tela, dai pennelli al
martello, dal legno al vetro, dalla lettura alla recitazione. Suonando la chitarra
per poi ascoltare musica, leggendo poesie e poi guardando il cielo, dalla terra
da scavare al bagno da pulire, stirare e passare l’aspirapolvere, cucinare un
piatto nuovo per poi tornare al computer e concludere il pensiero iniziato ore
prima come tutto fosse parte di un unico flusso. Anni consecutivi senza sosta.
Dove ho compreso l’importanza di continuare ad affinarmi non accontentandomi più
del buono ma aspirando a qualcosa di più alto. Sentendo la necessità di
abbattere i limiti che ogni specifica attività svolta imponeva di seguire per
essere, o credere di sentirsi, professionale. Io sono naturalmente un
trasgressivo e questa imposizione m’ha imposto di ribaltare ogni concetto di
convenienza, apparenza, appartenenza. Ho imparato a fidarmi di me stesso, non
facendomi convincere dalle altrui convenzioni, senza paura d’ignorare lo stile
come solo canone di riferimento, sondare me stesso senza pietà e senza sosta
con la sola sicurezza datami dalla totale libertà che, come effetto
collaterale, m’ha sempre portato lontano da una qualsiasi idea paurosa d'un fallimento. Partendo da pensieri mai compromessi, da qualcosa che non fosse che
“il vero”, rassicurato dal fatto che la mia vita sarebbe stata guidata dalle ispirazioni.
Ed in più: rinforzato dai dubbi quanto più la sfida diventava difficile e,
paradossalmente, rasserenato dal non avere certezze. Assenza di convinzioni
profonde che m’avrebbero invece impedito di vedere la realtà, senza mai scendere a
compromesso alcuno con quel pensiero, contemporaneamente tenendolo a bada con
la necessaria durezza di fronte ad ogni lampo di troppa considerazione verso me
stesso.
Ho preso tutto ciò
che veniva con la semplicità d’un bimbo capace di meravigliarsi senza mai dare
importanze definitive e continuando a ripetermi, anche di fronte a situazioni che
mi sarebbero convenute, “non importa, va bene così”. Perché quello che conta
non è essere colui che arriva in anticipo o quello che ritarda sempre, se sto
in un posto fisico o solo immaginato, se l’ho detto o l’ho sentito dire, se
sono intelligente o totalmente stupido. Ho imparato a dire la verità, solo e
sempre quella, a me stesso e di conseguenza solo quella posso dire agli altri.
Ho imparato a chiamare le cose con il proprio nome, ad evitare le scorciatoie
della mente, a cercare la verità dove sento possa trovarsi ignorando i posti
sbagliati convincendomi invece fossero quelli giusti per comodità.
Per questo ho imparato a riconoscere la bugia, che mi fa tremare, ma che in cambio mi
regala una grande forza.
Ho imparato ad
amare, e non solo me stesso, perché ho capito che oltre a me c’è sicuramente qualcosa
di reale.
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