Mi chiamo Marco Aurelio, ho 42 anni, e faccio il geometra.
Sono
sposato da quasi tredici anni con Claudia
e insieme abbiamo due figlie: Aurelia
di otto anni e la piccola Domizia di
quasi tre.
Questo sono io e non c’è molto altro da
dire.
Se non
per il fatto che preferisco farmi chiamare Mario
perché non ho nessun tipo di legame caratteriale, morale, fisico con Marco Aurelio il grande imperatore,
filosofo e scrittore romano del quale porto lo stesso nome. Un confronto
onestamente impietoso, lui saggio e retto io apatico e solitario, lui il
politico che favorì l'emancipazione degli schiavi io geometra diplomato solo al
terzo tentativo – alle serali con 36/60 -, lui sovrano capace e guerriero
valoroso io marito anonimo e padre lacunoso.
Quindi è
meglio che tutti continuino a pensare che mi chiami Mario.
Credo che
questo possa bastare per raccontarmi, perché così appaio e voglio apparire a
chi non mi conosce: penso non ci sia altro da dire sul mio conto.
In realtà
qualcosa d’altro ci sarebbe…
Sono una
persona che evita ogni tipo di confronto, m'impegno in tutto ciò
che è inutile, sperando così di confendere per un attimo quell’istintiva noia di vivere
che mi possiede.
Questa è
una delle mie caratteristiche principali…tanto per dirne una.
E poi, ad
essere sincero, nemmeno ci riesco perché non mi impegno veramente in nulla. Faccio
tutto velocemente, sono ossessionato dal concludere il prima possibile, vivo
ogni situazione come un supplizio. Perché tutto ciò che faccio, o devo fare, mi
annoia e l’unica cosa che mi riesce è quella di rapportarmi sempre e solo con
me stesso. E fuggire con i miei pensieri.
Quando è
iniziato tutto ciò?
Avevo circa
dieci anni, ero al campo e giocavo a pallone con i miei compagni di scuola, si
trattava di una partita importante contro un’altra classe. C’erano molte
persone a bordo campo, maestre, genitori - tranne i miei -, tutti i ragazzini
della scuola e pure molte persone sconosciute. Al momento d’iniziare nessuno
voleva stare in porta così mi proposi anche se non l’avevo mai fatto. Dopo
dieci minuti per un fallo di mano l’arbitro ci diede un rigore contro: tutti
urlavano, chi mi dava consigli, chi mi diceva di buttarmi, chi già mi derideva.
Insomma, l’avversario calciò, io rimasi immobile sulla linea di porta. Segnò
senza rischiare. I compagni mi guardarono con odio perché non avevo ascoltato i
loro consigli, non mi ero buttato, e avevo solamente subito le urla dei
denigratori. Tentarono e riuscirono a farmi sentire in colpa.
La
partita proseguì e nessuno riuscì più a segnare. All’ultimo minuto un clamoroso
fallo di mano sulla linea di porta ci procurò un rigore a favore: potevamo
pareggiare. Nessuno dei miei si sentì di calciare, presi l’iniziativa, andai
sul dischetto. Sarà stato per il senso di colpa che mi sentivo ancora addosso,
volevo segnare, dovevo farlo. E cancellarmi in un sol colpa quell’ombra che mi
portavo dal mio essere restato immobile. Prima. Tutti urlavano, chi mi dava
consigli, chi diceva al portiere di buttarsi, chi mi derideva.
Misi la
palla su dischetto: presi una breve rincorsa e calciai.
Ne uscì
una lenta ciabattata che sospinse la palla con traiettoria rettilinea nelle
braccia del portiere che, rimanendo immobile sulla linea di porta, parò.
Lui lo
fece.
Triplice
fischio, fine della partita, fine della mia carriera di calciatore.
Lo so che
non si deve “…aver paura di sbagliare un
calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore…”
ma in quell’occasione conobbi il repentino passaggio dalla solidarietà e
condivisione alla più cupa e buia solitudine.
Restai
immobile in mezzo al campo mentre tutti si allontanavano.
Pensai
per qualche attimo a quello che avevo vissuto.
Un senso
di noia pervase globalmente il mio umore, fu la prima volta che lo provai, me
ne tornai a casa e non parlai mai più con nessuno del gioco del calcio.
Quello fu
l’inizio di tutto.
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