Maurilio
conosceva il Burfo fin
da bambino: quello era uno strano tipo che si divertiva facendo cose strane.
Oltre alla necessità giornaliera di menar le mani si
dedicava con grande applicazione alla tortura dei piccoli animali che trovava
in giro nei giardini delle case del quartiere dove viveva. Tutti lo odiavano,
ma nessuno era mai riuscito ad affrontarlo in modo deciso senza poi prenderle;
l’odio quindi per quel despota violento aumentava proporzionalmente a ciò che
lui faceva.
Una sera Maurilio si trovò ad assistere ad uno
di quegli eventi: era stato invitato con il fraterno amico Iames alla
festicciola di compleanno della sorella del Burfo, Annalisa. Stavano nei pressi del bordo della
piscina quando la loro attenzione venne attratta dalle risa sadiche del Burfo
che catturava alcune rane per poi costringerle a dirigersi verso un posto da
lui deciso dove, senza nessun tipo di pietà, le schiacciava sotto il basamento
in pietra d’un ombrellone ridendo come un satanista eccitato. Lo schifo e lo
sconforto aleggiavano nell’aria ma nessuno s’azzardava a dire soltanto una
parola in favore delle piccole vittime. L’omertà permeava l’aria della
festicciola.
Anni dopo Maurilio
incontrò il Burfo: non era molto cambiato anche se quell’aspetto da
burbero picchiatore era stemperato da un’incipiente calvizie e da un fisico
evidentemente logorato da troppi e continuati abusi alimentari. Maurilio
lo notò passando in auto mentre questi s’apprestava ad attraversare sulle
strisce pedonali: in un istante il ricordo delle angherie fatte da quell’essere
si ripropose violentemente nella sua mente come si trattasse del retrogusto di
peperone non digerito che risale l’esofago. Un flash, pensò di fargli provare
la sensazione di quelle povere rane prima che la pietra gli cadesse addosso,
così accelerò. Per alcuni attimi combatté fra l’odio e la ragione fino a che frenò
di colpo, a meno di mezzo metro dal pedone. Il Burfo si voltò di scatto
verso quell’avventato automobilista ed i suoi occhi, da quieto cuccioline
domestico imbolsito, s’accesero con la spaventosa vecchia luce d’un tempo.
Lentamente s’avvicinò all’auto.
Maurilio riprovò i brividi di terrore che da bambino lo
paralizzavano: era immobile con lo sguardo perso all’orizzonte. Il Burfo
bussò al finestrino. Lo stato catatonico in cui il nostro versava invece di
mitigarlo lo fece ulteriormente scaldare al punto che, non avendo ricevuto
risposta, infilò le dita nel piccolo spazio tra finestrino e portiera
abbassandolo a forza. Poi allungò le mani per afferrare il collo dello
sventurato e trascinarlo fuori quando, all’improvviso, lo riconobbe.
Maurilio
ebbe una scossa: si scostò e prima che questi terminasse d’istinto schiacciò il
pulsante del finestrino alzandolo ed incastrando di fatto l’aggressore che iniziò,
agitandosi, a bestemmiare. Ma non mollava la presa. Seguì un combattimento
selvaggio: Maurilio balbettava ingiurie con la voce rotta dalla paura.
Lo morsicò sul braccio una decina di volte ingoiando il sangue che sgorgava
dalle lacerazioni per poi sputarlo per non soffocarne. Attimi da guerriglia
urbana finché il Burfo,
ferito come un cane da combattimento sconfitto, mollò di colpo.
Cogliendo l’attimo propizio Maurilio abbassò il
finestrino spingendo fuori l’aggressore che rantolò al suolo. Ingranò la prima
e sgommò dileguandosi velocemente.
Intanto la festa proseguiva: tutta l’attenzione
disgustata degli astanti era focalizzata sul disgustoso rituale che il Burfo stava compiendo. Maurilio
si voltò verso il tavolo delle bibite quando il suo sguardo incrociò quello
altrettanto disgustato della Burfa. Per un attimo i due si fissarono:
bloccati uscirono da quell'impasse con un timido goffo reciproco sorriso.
Negli occhi di Maurilio
s’accese una luce da lupo affamato: i suoi sogni più segreti stavano inaspettatamente
prendendo forma.
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