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martedì 25 marzo 2014

Sindróme da imbastonamento


 

 

Maurilio era ormai, come si usa dire, un uomo fatto e finito.
Ma lui aveva dentro ancora quell’ingenua freschezza tipica della fanciullezza tanto che a volte andava oltre le righe della decenza precipitando in veri e propri baratri rivestiti dal solo puro cattivo gusto.
Soprattutto quando beveva troppo.
I funambolismi verbali sui quali barcollava partivano spesso dal suo stato d’animo pre-puberale, amava raccontare di quel un poeta che albergava in lui, del un nobile messere dirottato nei tempi moderni dal medio evo. Un uomo galante che nella testa aveva priorità di tipo ricreativo, ludico, culturale, estetico, canonico manieristico, il tutto volto al riconoscimento di un merito da parte di…mamma. 
Gli astanti spesso a questo punto, non capendo cosa c’entrasse la mamma, iniziavano a deriderlo chi con insulti chi con l’indifferenza.
Poi d’improvviso riprendeva impetuoso l’edipico racconto. 
Arrivando in un balzo al periodo dell’imminente sviluppo corporeo dove l’interesse primario si spostava verso altri siti; e così, quasi inconsciamente, si ritrovava in una vera selva oscura dove l’orientamento e la decifrazione degli avvenimenti si presentavano duri e difficili. In fondo anche il più nobile e puro dei poeti faticava a confrontarsi ogni mattino con una condizione che l’assaliva senza vie di fuga capendo che le belle parole erano importanti, che le buone maniere lo erano altrettanto, ma che era altrettanto importante concretizzare quelle sensazioni in gesti o azioni immediate. E così il cinquecentesco poeta si trasformava in un inverrato animale da caccia.
Quelle mattine se le ricordava bene, come se le stesse vivendo ancora, iniziava ad irrigidirsi con gli occhi spiritati ed il tono della voce scendente al grave fino a livello “maniaco”. Il suo corpo trasformato in una massa ormai inquieta come preda di fortissimi richiami. Era la famigerata sindróme da imbastonamento che con straordinario talento riusciva, in un’interpretazione unica, a rendere veritiera anche per chi non lo stava ad ascoltare. Urlava al cielo che era vittima di una vorticosa erezione, con la mente proiettata verso una donna da possedere, declamava quell’istinto selvaggio che lo spingeva ad accoppiarsi. E poi s’accasciava esausto a terra: molte volte gli sventurati spettatori si spaventavano all’improvvisa caduta. In realtà era solo il prologo al drammatico finale, cioè, la dichiarazione pubblica della sua costante necessità di sesso. 
Mai una volta quell’esternazione aveva portato i frutti sperati tant’è che ancor oggi, quel suo monologo delirante, viene ricordato come la lode all’autoerotismo. 
N.B.
Sindróme: pronunciato da Maurilio con l’accento aperto sulla o. E’ un puro vezzo estetico legato alla rima dell’omonimo pezzo musicale da lui stesso composto.
Inverrato: Maurilio amava utilizzare quel termine perché gli ricordava un’esperienza vissuta da bambino quando un maiale maschio –verro– lo caricò scambiandolo per una femmina da coprire. Quei due occhi eccitati iniettati di sangue che lo rincorsero per tutta l’aia della fattoria degli zii. Un momento che s’incise indelebile nella sua memoria. Da lì quel neologismo.

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