Venanzio Potenza era un amico d’infanzia di Alfredino. Venne
inserito nel gruppo il giorno in cui iniziò a procurare biglietti di locali ed
eventi che poi venivano riprodotti e/o falsificati. Un ragazzo assolutamente
affidabile tranne nei momenti in cui l’alcool prendeva il sopravvento nella sua
mente. E lì Venanzio poteva dire, fare, ed essere tutto
l’inimmaginabile. Spesso rischiò pesantemente, addirittura, la sua stessa vita.
Come una notte, totalmente ubriaco, rincasando alla guida dell’Alfa 2000 del padre da lui chiamata
affettuosamente Alfona.
Era
tardissimo, Venanzio non riuscì mai a
ricordarsi l’ora e nemmeno il tempo impiegato per arrivare a casa, il mondo gli
girava attorno con versi rotativi contrastanti. L’ansia che aumentava, la
voglia di buttarsi a letto mista quella di respirare un attimo di sollievo
pressante, sentì quasi d’asfissiare. Riuscì a resistere fino all’ultima curva
ma, a duecento metri da casa, la luce si spense. La mano divina che fino a quel
momento l’aveva guidato, anzi aveva guidato l’auto, evidentemente si distrasse
per un istante. Quello fatale. Venanzio
con il buio davanti agli occhi spalancati esplose in un conato liberatorio
ritrovandosi a fluttuare in un mare denso di succhi gastrici, cibo e molto,
molto alcool.
Poi
lo schianto.
Un
dannato platano che qualcuno secoli prima aveva piantato in quel punto per
delineare la sede stradale dal terrapieno. Un monito d’attenzione che Venanzio, in quelle condizioni
disastrate, non poteva di certo ascoltare. Sbatté violentemente
accartocciandosi attorno al tronco. Fu sbalzato in avanti ma la cintura di
sicurezza, che non si sa per quale motivo portava legata, lo trattenne
evitandogli di spalmarsi fatalmente sul parabrezza. Dopo alcuni minuti riuscì
faticosamente ad uscire dall’auto, fece alcuni passi indietro come a volersi
rendere conto dell’accaduto, si stropicciò gli occhi ed intravide l’Alfona abbracciata in modo quasi tenero
al grosso vegetale.
Eiettò
liquidi per la seconda volta.
Raggiunse
casa con andatura caracollante.
Entrando
urtò qualcosa provocando un notevole trambusto che svegliò il padre che intuì
qualcosa solo vedendo il volto bianco
lenzuolo del figlio. Venanzio tentò
di rassicurarlo by-passando i dettagli di quanto accaduto, gesticolò con la
mano destra alzando il pollice ed abbozzando un sorriso, infine imboccò infine la
porta della camera roteando l’indice come a voler dire “…domani ti spiego tutto…”
L’indomani
fu un giorno difficile per Venanzio: abbassò
lo sguardo evitando quello impietrito del padre mentre spostavano dal platano l’Alfona a pezzi ed in più, i
pochi sani, imbrattati di vomito fermentato dalla notte. Fu certo d’aver
combinato il più grosso guaio della sua vita.
Era
affranto ma vedendo il disastro combinato si sentì miracolato. Il padre dopo
circa mezz’ora si voltò guardandolo dritto negli occhi sembrando pronto a
sferrargli un colpo fatale.
Lo
fissò per alcuni secondi, poi si voltò verso il parabrezza frantumato, infine
allungò il braccio accarezzandolo dolcemente sulla guancia.
Borbottò
qualcosa d’incomprensibile e poi s’azzittì.
La
forza di quell’intervento divino straordinario evidentemente ebbe il
sopravvento placando ogni possibile plausibile reazione.
L’episodio
si chiuse senza ulteriori fatti degni di nota.
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