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venerdì 29 novembre 2013

A proposito di conoscenza.
Perché si studia la storia?
Anzi, perché si dovrebbe studiare la storia?
Ricordo questa domanda postaci dal professore di storia un giorno a lezione, in seconda media, varie le risposte.
Per imparare dagli sbagli commessi nel passato […] per capire chi siamo e da dove veniamo […] per conoscere la cronologia degli eventi che hanno più influito sull’umanità […]
A quell’epoca pensai che un buon motivo per il quale eravamo obbligati a farlo fosse la necessità di essere promossi a fine dell’anno scolastico.
Ma, giuro, me ne restai zitto con quella mia convinzione.
Ero giovane, sicuramente ingenuo, ma pure non inquinato da tante cose che poi sono stato costretto a vedere e vivere. Quello mi pareva un buon motivo, oggi ho capito che c’era pure dell’altro, anche se ascoltai ciò che disse il professore.
La storia insegna, attraverso l’osservazione dei fatti e delle esperienze passate, ad avere un’opinione.
Così rispose, tutti lo guardammo senza capire molto, in fin dei conti ragazzini di undici anni non hanno molte opinioni se non quelle copiate dagli adulti in genere. Dai genitori in particolare.
Personalmente ho sempre trovato il passato più interessante del futuro. Solo per il fatto che parlandone si fa riferimento a qualcosa di vero, d’accaduto, contrariamente a ciò che si può considerare al massimo un’ipotesi. La storia del passato è il racconto della vita delle persone. Persone vere protagoniste di storie vere. Un crocevia necessario per avere la certezza d’un punto iniziale da cui partire verso un futuro che possa contenere le nostre convinzioni, forse, i nostri sogni.
Ben inteso: mi riferisco alle vere storie, quelle di cui siamo certi, non alle ricostruzioni di parte.
Mi sono perciò sempre posto tante domande studiando la storia dell’umanità ma tre sono i fatti su cui ho passato del tempo a riflettere.
Il primo fatto.
I morti causati delle guerre.
Una contabilità raccapricciante riportata nei libri - a scuola - in modo asettico, come puro fatto inevitabile, sottolineando invece come essenziali date, cause ed effetti dei conflitti. E questo bastava per evitarci un dubbio o perdere tempo a riflettere.
Forse un modo che fin da subito c’ha istruito a non pensare.
Prendiamo a caso quattro vicende storiche ben note.
Guerra dei trent’anni: una serie di eventi bellici avvenuti in Europa nella prima metà del 1600. Circa 4.000.000 i morti.
Rivoluzione francese e guerre napoleoniche: dalla fine del 1700 al 1815 circa. 5.000.000 di morti.
Grande guerra: dal 1914 al 1918. 26.000.000 di morti.
Seconda guerra mondiale: dal 1939 al 1945. Quasi 54.000.000 di morti.
Il secondo fatto.
Il sistema feudale.
Nella prima metà del 1300 l’uomo (almeno nel continente europeo) si diede un ordine preciso quanto definitivo di società.
C’era chi comandava e stava in alto nella scala sociale – un governante, quasi sempre un re o un nobile di alto rango, ma anche un’alta carica religiosa – poi sotto categorie a discendere d’importanza - vassalli, valvassori, valvassini – poi c’erano i contadini liberi ed infine, sotto a tutti, i servi della gleba.
Fu questo il primo grande sistema di gestione sociale, passato attraverso – e frutto di - tante esperienze precedenti che tutt’oggi, con forme e modalità apparentemente differenti, resiste.
Il terzo fatto.
Il 6 agosto 1945, con la bomba atomica esplosa su Hiroshima, gli equilibri dell’umanità cambiarono definitivamente. Ma non rispetto all’ordine sociale – in senso assoluto - ma solo rispetto al modo di farlo valere ed accettare.
La storia è importante.
Importante è pure non farsi ingannare da essa.
Nel senso che si possono conoscere date, nomi, situazioni…ma non bisogna mai dimenticare i morti, i tanti morti serviti a creare un ordine necessario a controllare chi è restato in vita, e pure i modi o le tecniche utilizzate per farlo. Tutte le scelte hanno una conseguenza, pure un prezzo da pagare, ma anche un limite insuperabile da rispettare pena l’annientamento globale. Sono i parametri da controllare in una guerra: quindi, non conta quanto morti servono, bastano quelli necessari allo scopo. L’ordine sociale è garantito dalle gerarchie: chi sta sopra (pochi) comanda chi sta sotto (tanti). Non conta quali mezzi vengono usati per le guerre e la gestione dell’ordine sociale, basta soltanto siano efficaci e possibilmente gestibili, onde evitare una ritorsione degli stessi contro a chi li usa.
Importante è perciò comprendere la storia nella sua vera essenza e non solo per come ci viene raccontata per poterne percepire, si spera, il significato.
Faccio un esempio, che so possa sembrare paradossale, ma credo possa farmi meglio comprendere. Molti conoscono il “Mein Kampf” di Adolf Hitler. E’ il proclama politico della follia di un uomo, diventata collettiva con il nazismo, censurato dopo la chiusura tragica di quel periodo storico.
La maggior parte delle persone, pur non conoscendo quel testo perché mai l'ha letto, tende ad indignarsi appena sentito nominare.
Eppure milioni sono le copie vendute, perché quindi? Quel’è il senso profondo che quel libro possiede?
Giustificare pensieri e azioni di qualcuno convincendosi della necessità d’una assoluzione sui fatti per arrivare in sostanza a darsi un perché rispetto a qualcosa che razionalmente un perché non ce l’ha. E’ questa l’istintivo pensiero, quasi globalmente accettato, che può dare all’uomo medio un senso di spiegazione dell’argomento.
Se si scava più in profondità invece c’è altro: quel libro è la misura esatta di ciò che ha sempre subdolamente guidato ogni atto umano, ovvero, la necessità del potere. E nello specifico la forza – soprattutto economica - che si possiede mascherandosi dietro ad una facciata mediante un documento storico che nessuno dovrà mai dimenticare.
Per chi l’ha scritto e forse subito evidente, per chi lo detiene oggi un po’ meno.
Forse non tutti sanno che il “Mein Kampf” di Adolf Hitler è attualmente in commercio nella gran parte del mondo, negli Stati Uniti il libro si può acquistare liberamente nelle librerie e via internet. Il governo americano s’impossessò infatti dei diritti d’autore già nel 1941 in seguito all’entrata degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale come parte del With the Enemy Act e che nel 1979 la Houghton Mifflin acquistò i diritti dal governo stesso. Ed ogni anno ne sono vendute più di 15.000 copie. Barenes & Noble lo vende a 13$ e rotti...
Che significa questo?
Business is business.
A prescindere da tutto e da tutti. Sopra tutto e tutti.
L’ottenimento del potere – per esempio attraverso la gestione e vendita d’un libro - rappresenta una necessità insita nella natura umano. Ieri e l’altro ieri con guerre devastanti, oggi con guerre che hanno occupato territori diversi.
Tanto per essere chiari.
Non ci fu solo questo durante il periodo della dittatura nazista. In tanti altri hanno fatto business approfittando cinicamente di quell’opportunità. Per esempio: le filiali tedesche della KODAK durante la Seconda Guerra Mondiale utilizzavano schiavi provenienti dai campi di concentramento. Il famoso HUGO BOSS nel 1930 disegnò e produsse le uniformi naziste (Gioventù hitleriana, Sturmtruppen, SS). La VOLKSWAGEN, Ferdinand Porsche il suo ideatore, fu l’uomo scelto da Hitler per progettare e costruire la “vettura del popolo” – il maggiolino -. La BAYER. Azienda farmaceutica nata nel dopoguerra era una costola dell’originaria IG Farben, società diventata economicamente potente durante il nazismo perché produttrice del Zyklon B, il gas usato nei campi di sterminio…oggi invece ricordata come la più importante venditrice dell’aspirina. E ancora: la SIMENS che utilizzò enormi quantità di schiavi in generale durante quel periodo, in particolare, con essi ci costruì le camere a gas nei campi di sterminio. La COCA-COLA che giocò opportunisticamente sui due fronti: sostenendo le truppe alleate – americane in primis - ma continuando a produrre e vendere soda alla Germania nazista. E quando nel 1941, in Germania le materie prime – sciroppo necessario per fare la Coca-Cola – scarseggiavano s’inventò una nuova bevanda specifica per loro chiamata Fanta. Questa bibita è stato la bevanda ufficiale della Germania nazista. HENRY FORD fu forse il più celebre industriale antisemita sostenitore di Hitler. E questo basta…
La STANDARD OIL (oggi divenuta ExxonMobil, Chevron e BP) fu la principale fornitrice di combustibili per la Luftwaffe. CHASE BANK, famoso istituto di credito americano, si schierò apertamente dalla parte dei nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale congelando, per esempio, i conti europea dei suoi clienti ebrei. Infine la IBM che costruì macchine per i nazisti…
Questi fatti come questi sono parte della storia da conoscere?
Si, certamente.
Fatti come questi sono in grado di formare un’opinione in quanto storia?
Si, a patto che li si consideri non solo per quello che raccontano o che c’è stato raccontato ma per quello che rappresentano. E, come in questo caso, l’essere un puro strumento di rivendicazione del potere e contestualmente una giustificazione dei modi usati ad esprimerlo.

martedì 26 novembre 2013

         Alcune persone mi guardano con simpatia, altre con sospetto, la maggior parte m’ignora.
         Credo che questa sia condizione comune a chi prova ad essere ciò che realmente è. Dicendo ciò che pensa. Vivendo rispettando se stesso quindi gli altri. Ascoltando le proprie opinioni e valutare serenamente quelle altrui. Sicuro che la ragione debba prevalere sugli istinti.
Sono stato definito – mai direttamente – come un fascista, ed anche – mai direttamente – come comunista.
         Sinceramente i giudizi non m’interessano.
         E non lo penso e poi dico per spocchia o senso di superiorità bensì per il semplice motivo che chi lo fa – giudicare - nella maggior parte dei casi si riferisce a modelli che nemmeno consoce, dei quali ha solo sentito parlare, diventandone paladino solo per averli letti nei titoli dei giornali o visti alla televisione o letti sul web.
          Quella è gente che sente di poter giudicare, invece, pre-giudica.
E’ come parlare dei comportamenti di Mario Balotelli e giudicarlo per ciò che viene raccontato sul suo conto: ma nessuno dei giudicanti lo conosce personalmente, ha fatto quattro chiacchiere con lui, gli ha mai chiesto cosa significa essere un nero adottato cresciuto nella provincia bresciana? E, soprattutto, nessuno ha mai posto la giusta importanza a stabilire se tutto quello che viene detto su di lui corrisponda o no alla verità.
         Prometto che questa sarà l’unica divagazione di genere calcistico, anzi no, ce ne sarà un’altra.
Del pensiero comune, figlio di quel pre-giudizio, non me ne importa niente.
           E’ solo una questione d’ignoranza diffusa, per tentare di mettere ordine alle cose, banalizzando persone e situazioni semplicemente etichettandole.
         La gente oggi, nella maggior parte dei casi senza cultura specifica e nemmeno generica, ha la presunzione di sapere tutto. Sente di potersi permettere qualsiasi uscita, d’aver voce in capitolo, suppone facendo parte di un mondo che offre possibilità di rendersi facilmente visibili e ascoltabili d’aver libero e autorevole accesso al giudizio. Ogni conversazione – quella politica specialmente - è ridotta per ciò ad un chiacchiericcio da bar, il confronto d’idee è solo il preludio d’uno scontro, il luogo comune diviene regola di comportamento sociale.
         Perché fondamentalmente mancano le basi...ed anche le altezze.
          Perciò la società d’oggi è quella che è.
         Non esiste più il senso del rispetto, tutto deve essere ottenuto velocemente, e con successo.
          Se non lo raggiungi sei irrimediabilmente un perdente – o uno stronzo… -.
        Osservo a volte certe persone – specialmente miei coetanei - chiedendomi retoricamente come riescano ad avere ciò che hanno: semplicemente l’hanno ricevuto in dono o ereditato da genitori, nonni, amici, amanti, protettori. Perché se si va più all’origine di qui patrimoni si scopre che uno dei loro parenti lavorava per o con la chiesa, l’altro era amico di un politico influente, l’altro amante di…
         Genti posizionate che hanno prodotto genti che tutt’oggi sfruttano i benefit presi nel passato. Molto spesso senza merito o addirittura illecitamente se non illegalmente.
         Un po’ come i contrabbandieri che salivano a piedi le Alpi per portare in Italia cose dalla Svizzera evitando di pagare il dazio. C’è sempre qualcuno che fa il lavoro sporco, quello che nessuno vuol fare perché puzza, che lascia le mani sporche. Ovviamente chi è disposto a farlo prende e pretende in cambio il beneficio.
         E non c’è solo questo.
          Molta gente non ha semplicemente mai pagato le tasse, evasori cronici, che hanno costruito imperi economici. Infischiandosene del senso civico, del bene della società, del rispetto dell’altro. Per ciò i loro discendenti tutt’oggi abitano in lussuosi appartamenti del centro, hanno ingenti somme di denaro nei conti correnti, ed in più amano pontificare e biasimare scandalizzati chi dubita delle loro origini -economiche-.
         Io ricordo mio padre sfasciarsi per il lavoro: perché gli piaceva farlo, innanzitutto, e poi gli serviva. E mai è riuscito a salire nelle gerarchie perché quello non era il suo scopo. E ne ha sofferto infine. Quando, dopo un ictus dal quale si riprese completamente tanto da riuscire a tornare al suo amato lavoro, fu da esso allontanato con una motivazione assai crudele quanto banale legata alle sue condizioni sanitarie che non davano garanzie di certezza all’azienda per cui aveva sempre lavorato. Fu così buttato fuori come il più noioso dei fastidi.
            Lo vidi piangere. Anzi, con gli occhi inumiditi, non vidi mai le sue lacrime.
           E mia madre a sostenerlo, sempre e comunque, con un grande rispetto unito all’innato senso della famiglia. I sacrifici, il doversi abbassare anche ad umiliazioni cocenti per tentare di avere un futuro, le lacrime di mia madre – quelle si le ho viste e me le ricordo – mentre seguivamo l’ambulanza che portava mio padre all’ospedale dopo il famigerato ictus.
         E io, con una paradossale serenità che in un momento del genere non può esistere, le dicevo di stare tranquilla perché tutto si sarebbe sistemato. E ne ero certo.
           Ma chi mi dava quella certezza?
         Nessuno, solo sentivo che quello non poteva essere il finale, ogni storia di onestà deve concludersi almeno degnamente. Garantire rispetto al protagonista.
         Sfruttatori di patrimoni accumulati in maniera dubbia ed in più criticanti: il mio non vuole essere un giudizio ma una costatazione. Perché tutto questo è semplicemente inaccettabile quanto meno da un punto di vista etico.
         Il Nazareno invitò chi fosse senza peccato a scagliare la prima pietra contro l’adultera…il fatto è che siamo tutti adulteri e nessuno può – moralmente – azzardarsi nemmeno a pensare di cercare un sasso.
         Ma tutto viene così banalizzato e m’innervosisco.
        Se esprimi un disagio morale come questo sei immediatamente classificato: e vieni attaccato. Se poi non riescono a scalfirti ci provano con le persone che stanno attorno a te.
In ogni famiglia ci sono cose che forse non si allineano al principio comune reputato degno. Mio nonno aveva una passione per Mussolini; lo ricordo nel suo fumare facendo solo fumo e nella sua grande delusione d’una speranza persa che in gioventù gli aveva fatto sacrificare la parte più bella della vita. E mia nonna a supportarlo, forse non totalmente d’accordo con quelle sue convinzioni, ma solo per senso d’appartenenza accettarle. L’unica presente quando morì un mattino raccogliendo con un sorriso rispettoso l’ultimo suo respiro. E pure uno zio omosessuale prigioniero di guerra e poi prigioniero nella vita. Ghettizzato e nascosto come un appestato, impresentabile, una vergogna da celare al mondo.
           Ma quelle erano le loro vite, belle o brutte, condivisibili o no. Chi siamo noi per poter giudicare, abbiamo già il sasso nella mano, lo teniamo nascosto pronti a scagliarlo. I denigratori sono sempre all’erta, pronti, a dichiarare una scomoda verità.
         La denigrazione è un’attività che rende molto.
         Personalmente, provata più volte sulla mia pelle, m’ha solo dato maggior vigore. A tratti la trovo pure rasserenante.
         Quando non hai bisogno di alibi perché sicuro della verità ti serve solo il tempo d’un respiro a farti rilassare.
         Ma l’italiano medio è quello che paga il condono tombale a prescindere, quello che preferisce evitarsi problemi anche se sa di non aver commesso qualcosa che gliene potrebbe produrre, è quello felice di prendersi un antibiotico prima ancora d’essere infetto.
         Il non si sa mai… è diventato il motto che spinge le generazioni italiche, esprimendolo meglio, pararsi il culo sempre e comunque.
         E’ questo, lo abbiamo nel DNA, siamo un commistione di razze e popoli diversi. Obbligati con la forza ad essere unici, abituati ad accettare un potere forte oppressivo ed a sottometterci, incapaci di pensare liberamente ad eccezione del fatto di proteggere il nostro piccolo orticello dalla grandine improvvisa.
           E questo basta.
           Ed è sempre bastato.
         Nessun sentimento comune, nessun senso di appartenenza, nessuna volontà di mettere la propria faccia.
         Seconda ed ultima digressione calcistica.
         Perché in Italia la squadra di calcio più tifata è la Juventus?
         Perché è la più forte? E’ quella che ha vinto di più? E’ quella dalla storia più prestigiosa e con la bacheca più ricca di trofei?
         No.
          E’ semplicemente la scelta più comoda fatta da chi intende il calcio come intende il resto del proprio esistere: salire sul carro di chi sai sarà vincitore a prescindere dal proprio valore e/o merito, affiancarsi anche solo per l’istante di una partita di calcio a chi rappresenta quello che mai sarai, sentirsi vincenti ed invidiati perché certi di non poterlo mai essere da soli. E dimenticare nello stesso attimo d’una partita di calcio l’arroganza con cui viene ottenuto spesso il successo, ignorando l’etica, il rispetto delle regole e degli avversari. Dove la lealtà, specialmente, non conta niente…ma stiamo parlando di calcio, in fondo non è poi così grave. E quindi: forza Juve!
       Ma c’è una cosa più importante che forse può salvare da questo raccapricciante orrore, credo l’unica rimasta, la conoscenza.

sabato 23 novembre 2013

Non so, sinceramente, se tutto quello che scrivo abbia sempre un senso.
Non so, sinceramente, se l’abbia per qualcun altro al di fuori di me.
Non lo so e basta. Sinceramente.
Sono anni che ogni giorno mi dedico ad appuntare i miei pensieri, per inventare storie, e trovare il modo e la forma migliore per raccontarle.
E tutto questo a prescindere da ciò che ne sarà.
Ho lasciato tutto il resto, nel senso di ciò che mi dava da vivere, un vero lavoro. Perché così viene considerata la libera professione nella società moderna.
Una vero lavoro.
E l’ho fatto quando ho capito che proseguire su quella strada non mi avrebbe portato che nella direzione, e non mi riferisco all’avvicinarmi ad un luogo d’arrivo, sbagliata.
Da quando ho iniziato a percepire questa esigenza, che poi è diventata necessità tanto da rendermi inevitabile la scelta che oggi mi rende sereno, ho cominciato a sentirmi libero.
Quello di scrivere – e ricordare così a me stesso quello in cui credo – è il mio vero lavoro.
Senza la preoccupazione di sbagliare, con la consapevolezza di potermi ravvedere, con la semplicità di essere l’unico giudice di me stesso.
Senza giudizio o pre-giudizio.
Sembra estremo pensarlo ma il punto a cui sono arrivato del mio percorso mi fa sentire che la posizione scelta, e da molti criticata come azzardata, in realtà è stata la più corretta che potessi prendere.
E, per amore di verità, l’unica.
Mi piace scrivere, da non molto mi piace pure leggere, trovo che questa sia la forma più completa – alta – che l’uomo abbia di esprimere se stesso. La propria natura, i propri pensieri, le proprie idee senza che necessariamente si debba passare attraverso l’interpretazione di terzi soggetti.
Come nell’arte, per esempio, solo i più sensibili vengono toccati nel profondo dei propri istinti. La moltitudine insegue invece opinioni emesse da chi s’arroga il diritto di decidere per loro. Ma questo capita, ed è capitato, nella storia dell’umanità. E sempre capiterà.
Ognuno dovrebbe avere la possibilità, e la capacità, di avere opinioni proprie a prescindere da quello che gli viene raccontato. Purtroppo viviamo in un’epoca in cui troppo semplicemente si giudicano le persone per quello che dicono. E basta quello. Non si ha la curiosità di scoprire se ciò che c’hanno raccontato è stato poi seguito da fatti che confermano le parole usate nel farsi precedere. Sembra non esserci mai l’interesse di confrontare le anticipazioni con quello che poi accade realmente.
Oggi, apparentemente un giorno uguale a tanti altri, ho sentito che il momento di occuparmi di una cosa a cui penso da molto è giunto. E farlo – occuparmene – con le armi di cui dispongo e cerco di utilizzare. Mi scuso per la parola armi, credo di non averla mai utilizzata da quando scrivo e pochissime volte in vita mia, ma essendo in guerra purtroppo non si può fare altro che usare quelle. Ognuno ha le proprie, molti le usano a caso, qualcuno con precisione per raggiungere i propri scopi. Che spesso prevedono l’annientamento degli altrui diritti e delle altrui vite.
Sono in un momento particolare della mia vita, non perché stiano accadendo cose così speciali, ma per il fatto che ho definitivamente abbandonato ogni tipo di filtro – o censura - che forse a volte sono stato spinto ad usare soprattutto nei miei pensieri, nelle opinioni, nella ricerca del mio punto di vista.
Inconsciamente è da un po’ che lo faccio, consciamente rileggendomi, ho capito d’essere arrivato al limite perciò posso solo andare in un’unica direzione. Proseguire senza mai più voltarmi indietro, senza più esitare, mai più dubitando delle me stesso e della mie riflessioni.
Posso apparire presuntuoso, lo so, molti da sempre me lo rinfacciano ricordandomi l’importanza della mediazione nei rapporti interpersonali. Ma fare carriera non m’interessa, voglio essere onesto, consolidare una credibilità intellettuale evitando di appoggiarmi comodamente a ciò in cui non credo.
Orrido.
Mi guardo attorno e trovo greggi di artefatti che sanno tapparsi il naso di fronte al denaro e al potere che hanno invece così acquisito. E pur sapendolo sorridono sereni sui loro SUV, sbeffeggiando chi noi li apprezza o li critica, indicandoti come invidioso che a differenza loro non sei riuscito a farcela.
Ultimamente ho concretizzato vari lavori – è da poco che definisco in questo modo ciò che faccio forse perché ero ancora infarcito dai condizionamenti che m’impedivano di pensare allo scrivere in questa maniera – dove ho trattato argomenti per me essenziali oltre che sostanziali.
Ho cercato di dare una forma decente al mio fare, evitando di mediare attraverso modelli letterari che non mi appartenessero, ho provato ad evitare inutili giri di parole quando era semplicemente necessario chiamare le cose con il proprio nome.
Sono riuscito a scrivere di verità e di ricerca di se, di sesso e noia, di follia. Di gioie e dolori.
Cose che mi appartengono, non in senso patologico, ma temi attorno ai quali ho sempre ruotato – forse in maniera ammirata tanto da mitizzarli a volte – usando l’arma dell’ironia come compromesso espressivo per disinnescare i miei limiti.
Essere grottesco mi ha permesso di parlarne anche se, intimamente, ho sempre sentito che non bastava. Il prete bigotto che si nascondeva in me, pronto ad uscir fuori al solo scopo di influenzarmi, è riuscito spesso ad avere la meglio.
Ma…vi sono dei momenti, nella vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre…e oggi per me quel momento è arrivato.

giovedì 21 novembre 2013


Otto gennaio 2013.
 
Tempo fa passai una bella serata in compagnia di alcuni amici, cenammo e bevemmo buon vino, poi caffè ed amari. Ed infine una bella partita a briscola.
Tante chiacchiere, ci raccontammo pezzi delle nostre vite come molte volte avevamo fatto, del passato comune e dei progetti che da giovani inseguivamo. E anche di qualche sogno infranto.
Tante risate.
Quando si parlò di ciò che sarebbe stato il futuro un velo di tristezza scese su di noi, ci guardammo sorridendoci come a rinfrancarci, perché tutti stavamo attraversando un momento difficile. Economico soprattutto. Chi perché non aveva più un lavoro, chi pur avendolo non ce la faceva ad arrivare a fine mese, chi perché passava il tempo ad inseguire creditori tentando di raggiungerli, chi invece continuava a sperare in tempi migliori erodendo lentamente ogni risparmio messo da parte provando così a sopravvivere.
Dopo cena si unì a noi una persona che stava nello stesso ristorante, nel tavolo in parte al nostro, era stata fino a quel momento testimone delle nostre parole senza mai intervenire e apparentemente senza ascoltare. Quando ci accorgemmo di lui l’invitammo a bere un amaro e fare il quinto per una briscola chiamata. Sorrise imbarazzato ma poi accettò girando la sua sedia verso di noi.
Quell’uomo aveva chiaramente sentito tutti i nostri discorsi. Dopo un paio di mani, forse sentendosi a suo agio, si permise di dire la sua.
Sorridendo.
Diede semplicemente il suo punto di vista.
Parlò brevemente di politica, della situazione del nostro paese, delle imminenti elezioni. Era molto lucido e preparato.
Fu interessante ascoltarlo: una volta tornato a casa ripensai molto a ciò che avevo sentito e dentro di me nacque un’esigenza immediata di chiarimento.
Per fissare e non dimenticare quel pensiero che in realtà non era solo il mio. Ciò che avevo sempre pensato e creduto finalmente sentito con le parole di chi sapeva. Di chi non aveva più dubbi e seppur rassegnato alla fine imminente non voleva cedere a nessuno nemmeno la propria dignità.
Iniziai vorticosamente a scrivere.

mercoledì 20 novembre 2013


Oggi inizia per me una nuova avventura.
Un progetto che trova vita attraverso un mezzo di pubblicazione per me inconsueto.
Un blog.
Ci ho pensato a lungo, più di due anni, ho capito che questo sia il modo migliore – e pure l’unico – per dare una platea a questo mio lavoro.
Migliore perché un e-book per esistere ed essere diffuso ha necessariamente un costo ed una strategia specifica da girare sui lettori, unico perché nessun editore sano di mente pubblicherebbe mai questo testo sia per i contenuti sia per la forma.
Io invece lo desidero accessibile, gratuito, condivisibile. E così, attraverso questo blog, lo sarà.
 
Stay tuned