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venerdì 26 giugno 2015

post 155: donne (La sconosciuta – inedito 2014)



Ogni venerdì pomeriggio lo passava in un centro di bellezza. Il più caro, il più esclusivo, il più ambito. Ma lei amava andarci solo per osservare le donne che lo frequentavano. Altolocate, figlie e mogli dell’elite politico-economica, giovani in carriera, escort o semplici mantenute. Quel posto era particolarmente curato, una spa spettacolare, il suo canonico trattamento partiva con un massaggio rilassante per poi finire con una ritoccatina di trucco e parrucco. Infine una tisana nel piccolo angolo bar con chiacchiere su banalità e ovvietà. In realtà ciò che particolarmente l’attirava di quel luogo era stare prevalentemente nuda in mezzo ad altre donne; e questo non per un fatto sessuale, nonostante la relazione che aveva con Cristiana lei si sentiva assolutamente eterosessuale, bensì per vedere a nudo quelle donne. Quella condizione era livellante, tutte erano alla pari, non che lei si sentisse fuori posto o non adeguata visto che di denaro ne aveva molto e forse più di tante altre, ma solo perché si sentiva diversa. Le squadrava, si soffermava sulle imperfezioni fisiche, le decine di portesi mammarie di varie forma e dimensione erano tra gli obiettivi preferiti. Non fu mai in grado di comprendere il motivo per cui una donna si rifacesse il seno ma c’era di più. Quelle artefatte le parevano tutte simili oltre che nelle tette pure nelle simmetrie dei visi, nei rigonfiamenti botulinici, in quelle pelle lucide tanto levigate da sembrare pronte a criccarsi improvvisamente. E poi la gestione del pelo pubico: argomento che le stava particolarmente a cuore dopo le lunghe chiacchierate con Cristiana sull’argomento. La maggior parte erano completamente depilate, altre con un ciuffetto, poche con il triangolo ben disegnato. Ognuna la mostrava più o meno consciamente presumendo di essere migliore, lanciatrici di fugaci occhiate a vagine altrui ben attente a non farsi scorge, intime riflessioni riguardo le abitudini della proprietaria. Cose che, seppe un giorno, era abituale anche fra gli uomini che non possono fare a meno di guardare in occasioni simili i peni degli altri maschi con l’inevitabile confronto. Ma quella parola proprio non le era mai piaciuta: non era e non voleva mettersi dentro ad alcun confronto, credeva solamente ad una cosa dopo anni di osservazioni di vagine e frequentazioni di ambiti sessuali eccessivi o estremi. Ogni donna è lo specchio della sua vagina. La moglie del ministro dal taglio pubico triangolare abbastanza folto fu per lei sempre una donna innamorata d’un marito traditore che non era da tempo più interessato a quella sua intimità, l’avvocatessa rampante con il taglio moicano rappresentava il prototipo di donna pronta all’uso di qualsiasi genere e per ogni evenienza, la figlia d’un noto medico totalmente depilata era una che credeva d’essere per quel fatto alla moda perché qualche fidanzatino con cui s’intratteneva l’aveva così costretta ossessionato dalle migliaia di ore consumate con la pornografia, la escort depilata completamente con piercing sul clitoride era semplicemente una donna puramente dedicata al proprio lavoro capace di non far interferire in quella soluzione di gestione vaginale i suoi gusti personali. La sua era liscia e sgombra da qualsiasi peluria, come tutto il resto del corpo, perché i motivi e le certezze erano ben chiari e assodate.

Non sopporto le altre donne perché noi femmine, fondamentalmente, siamo stronze. Per questo odio mia madre ed in più la odio perché è stupida –ma di lei non vorrei più parlare- detesto mia sorella solo perché siamo gemelle, identiche, è come specchiarmi ogni volta che passa mi davanti. Ma siamo così diverse pur essendo nate uguali. Come il prima e il dopo la cura. Ma questa è la sorella che mi ritrovo. Io brutta e poco interessante, lei bella e simpatica. Io che non riesco a combinare nulla d’importante lei che riesce in tutto ciò che fa. Non sono invidiosa, non fa parte della mia natura l’invidia, lei riesce però a farmi sentire distante con ogni suo successo facendomi percepire in tutta la loro pochezza quelle che io reputo soddisfazioni. Siamo semplicemente imparagonabili anche se tutti ci paragonano. Passo oltre perché odio il confronto. Sinceramente non percepisco le donne come rivali, semplicemente trovo il genere femminile stupido ed al solo servizio del maschio che, inconsciamente, è reputato come depositario della verità e del potere. Indistintamente. Ma i maschi non sono tutti uguali nel senso che i veri maschi sono rari. Gli altri banali surrogati di un’idea che nemmeno è ben troppo chiara alla maggior parte. Tu sei maschio, dominante, superiore forse per la fisicità. Mi dovresti far sognare ed immaginare, il primo a farlo dovrebbe essere il padre ma, il mio, non è riuscito a farmi sentire minimamente così, nemmeno quando ero piccola ed ingenua. Anzi, se devo essere onesta, ho avuto nei suoi confronti una sorta di repulsione sia fisica che mentale. L’ho sempre trovato banale nel suo modo di porsi ed interagire, e nemmeno i suoi rari abbracci o dimostrazioni d’affetto mi sono parsi veri ma posticci, sempre percepiti come forzate dimostrazioni d’un sentimento che non andava veramente oltre ad un ipocrita apparenza.
[…]
Come è finito tutto questo odio? Il giorno in cui ho spaccato la faccia ad una stronza che mi aveva chiamata troia e solo perché, secondo lei, le avevo tagliato la strada con l’auto. Dopo l’insulto è sgommata via, l’ho inseguita nel traffico per quasi dieci minuti, poi l’ho raggiunta. Non so cosa mi è preso, non è stata una reazione a caldo, era già ben raffreddata. Volevo semplicemente massacrarla. E così ho fatto. Tutto sommato è stato abbastanza semplice, le ho veramente tagliato la strada, sono scesa e ho aperto la sua portiera prima che lei capisse cosa stava accadendo. Subito ha iniziato ad urlarmi cose irripetibili, l’ho presa per il collo e l’ho tirata fuori, mi ha dato una manata in viso che nemmeno ho sentito. L’ho scaraventata a terra e le ho dato una serie di calci in pancia e così ha smesso di parlare. Le ho fatto molto male perché indossavo i miei amati stivati texani…ma non mi sentivo soddisfatta, l’ho presa così per i capelli e l’ho trascinata per un po’, lei ha tentato da terra di colpirmi ed ha ripreso ad urlare. Le ho spaccato gli incisivi con un colpo di tacco. Quando ho visto il sangue scorrere sull’asfalto ho provato una sensazione di beatitudine e così l’odio s’è placato. Da quel giorno quando sento di non poterne più cerco qualcuno da picchiare. Meglio se trovo una donna. E questo funziona. Perché noi donne fondamentalmente siamo delle stronze.


lunedì 22 giugno 2015

post 154: estratto cap. 8 (Maionese ed. Starrylink 2003)



La droga faceva parte della mia quotidianità.

Urbano fece una verifica contabile sulle spese della gestione famigliare e mi scoprì.
Passai tre mesi in Svizzera, in una clinica specializzata, dove mi ripulirono.
Tornata a casa Urbano mi sequestrò carta di credito ed assegni, fece sparire il contante, avevo i soldi contati nel portafoglio.
L’ansia tornò ad impossessarsi del mio tempo.
Bastarono due giorni per farmi decidere di trovare immediatamente un surrogato meno costoso.
La cocaina uscì momentaneamente per fare posto all’alcool che entrò nella mia quotidianità.
Prima per necessità, poi per disperazione.
Non riesco a ricordare il sapore di ciò che trangugiavo in una giornata.
Iniziavo alla mattina, dopo la colazione; Anastacia, la domestica colombiana che lavorava da noi, mi portava subito un bicchiere mentre mi augurava una buona giornata.
Non c’era nulla di buono in ciò che mi si poneva di fronte.
Subito con un doppio gin liscio, dopo il caffè, il mio respiro si faceva meno affannoso.
Mi pareva di riemergere da un’apnea che durava dall’ultimo bicchiere della sera prima.
Io non ho mai pensato di essere alcolizzata, e nemmeno ora lo penso, è solo il trovarsi in una condizione che implica dei ritmi e delle regole diverse.
Quel doppio gin era il buon giorno di cui avevo realmente bisogno.
La sera Urbano partecipava a riunioni con i soci del suo circolo. Non che io fossi gelosa di questi suoi impegni, però, mi ritrovavo spesso sola.
Basta veramente poco in momenti tristi a far tornare il sorriso al tuo cuore.
Quei giorni erano nati sotto auspici negativi. E quando s’inaridiscono certi meccanismi è come se le cose che danno senso a tutto il resto sparissero per sempre dal proprio orizzonte.
I giorni della depressione culminarono così in un degrado che progressivamente mi fece cadere pesantemente in situazioni sbagliate.
In tutte le situazioni sbagliate per un’anima allo sbando.
E fu inevitabile volere quello che fino a quel giorno mi era sembrato lontano dal potere essere realizzabile nemmeno nei miei sogni più arditi; mi parve così facile che immediatamente mentre lo pensavo, ero già partita con la mia auto per raggiungere quell’idea.
Non so bene se fosse bisogno di libertà o di trasgressione, fu solo l’istintiva ricerca della luce di chi non vede.
E quando sei bella e ricca come io lo ero si abbreviano tutti i tempi.
Entrai in quel bar che mai prima avevo frequentato ma che sempre mi aveva attratta.
Fu naturale entrarvi quella volta, logico come un fiume che scorre verso la sua foce, buio già fumoso bensì fosse da poco aperto.
Il bancone lungo di legno scuro era imbottito di pelle nera, il che gli conferiva un aspetto elegante ma disincantate. Pareva dirmi “…guarda che io non sono uno dei tuoi eleganti originali comò, sono il banco di un bar malfamato ed a questa pelle, se t’appoggi, puoi sentire il mio cuore battere…” m’avvicinai e mi sedetti.
Non mi accorsi nemmeno che portavo un gonna con un profondo spacco e le calze autoreggenti fecero da irresistibile richiamo ai tre avventori che in quel momento solitari bevevano.
“Ciao, bella signora, hai bisogno di compagnia?” fece il primo.
Il secondo, un biondino con sguardo simpatico, mi sorrise, mentre il terzo, senza proferire suono mi scrutò dal suo tavolo. Era grasso e sudicio.
Irresistibile quel suo osservarmi.
Andai al suo tavolo e non so cosa mi passò per la mente.
Andammo nel bagno che stava nel retro, mi aprii la camicetta cercando una sua reazione; lui mi guardava.
Estrasse di tasca un rotolo di banconote e se le portò vicino al viso abbozzando un sorriso.
Mi concessi a lui come mai prima a nessun altro; il biondino poco dopo entrò con l’altro mi presero a loro volta, prima uno alla volta, poi insieme. Poi ce ne andammo al bancone a bere.
Offrii io del gin. Non ricordo nulla dei nostri dialoghi.
Mi diedero cento euro a testa.
Erano i primi soldi guadagnati in vita mia in quel modo.
“Se ti va noi stiamo andando ad una festa…” fece il biondino.
Non riuscii a dire di no. E partii con la loro auto.
Mi trovai subito a mio agio in quella bolgia.
Non avevo mai visto droga in quella quantità, nemmeno ai tempi dei miei due nipotini; tentai di ignorare quella visione, ma poco dopo, fu del tutto naturale sniffarne da quel grosso vassoio d’argento che girava tra gli ospiti.
Pensai che mi sarei potuta gestire. Tutto normale, sotto controllo.
Era una bella casa, non mi ricordo se qualcuno mi presentò il proprietario, guardavo distratta intorno i mobili di quel grande soggiorno. Una ragazza molto alta e bella mi si fece incontro fumando dell’erba; due strani tipi la seguivano abbracciati ridendo e mollandosi pacche sulle spalle. Mi sorrise prendendomi a braccetto. Poi m’abbracciò ed iniziò a sussurrarmi delle parole all’orecchio.
Mi condusse in una stanza dove altre persone stavano appartate già da tempo. Alcuni si baciavano, altri si erano spogliati, alcuni sniffavano. Io e lei ci sedemmo nel centro sopra un morbido tappeto rosso.
Il vassoio d’argento era stato posato su di un tavolo e, quando qualcuno gli passava davanti, inevitabile era una sosta come si trattasse di un rituale magico che potesse unire indissolubilmente ogni partecipante.
Tutti mi sorridevano.
La ragazza iniziò a spogliarmi mentre la sua bocca strisciava già sul mio collo lasciandomi una striscia umida di sensibile piacere. Non riuscivo a pensare, solo l’istinto mi condusse verso quello che avrei dovuto conoscere, il piacere cresceva con l’aumentare della sua intensità.
Improvvisamente la scostai da me; lei rise, mi fissò dritto negli occhi, e mi baciò sulla bocca.
Non aveva mai baciato una donna, se non nei miei sogni, e devo ammettere che non è molto diverso rispetto ad un uomo. Lei mi voleva e con un forte impulso maschile me lo fece capire.
Ci trovammo avvinghiate nude in quel posto con le mani che vicendevolmente frugavano alla ricerca del proprio e dell’altrui piacere.
Era così naturale ciò che avveniva che tutto sembrava non avere fine.
E più ci facevamo con la cocaina e più l’eccitazione cresceva.

Ci buttammo sul divano dove tre uomini, che stavano lì seduti dall’inizio, potevano servirci. C’avventammo su di loro, come prede sacrificali, poi una moltitudine di mani iniziarono a toccarci.

venerdì 19 giugno 2015

post 153: lingua comune (Bordeline – ed. Narcissus 2013)



Giuly entrò nella stanza.
Aveva un sorriso appena abbozzato, quasi imbarazzato. Ma in fondo non c’era nulla di male in quella cosa, essere nella stanza d’albergo con Umberto, un uomo. Un uomo che non era suo marito e nemmeno il padre dei suoi figli ma il marito di una sua amica.
Quello che si era creato, professionalmente e personalmente, in quei quindici giorni di lavoro trascorsi insieme formato e consolidato dal nulla, era difficile definirlo in una parola, facilmente la cosa sarebbe potuta essere equivocata.
Giuly era imbarazzata seppur certa che non ci fosse nulla di male, continuava a ripeterselo, ma non riusciva a convincersi.
Per questo chiuse la porta assicurandosi che nessuno l’avesse potuta vedere dal corridoio.
Era lì per una cosa: dare a Umberto un piccolo regalo, un pensierino come si dice, per fissare nella loro memoria quei giorni meravigliosi.
Anche Umberto aveva un sorriso, era rigido quasi stampato, evidente il suo imbarazzo.
Eppure non faceva nulla di male in quella stanza con Giuly, seppur lei fosse amica della moglie, pure lei era sposata e madre. Non faceva niente di male, più se lo ripeteva e meno ne era convinto.

“Volevo darti questo…”

Umberto prese il piccolo pacchetto, lo aprì goffamente, Giuly sorrise.
C’era una strana atmosfera, eppure quei quindici giorni erano stati intensi; avevano lavorato molto bene insieme, si stimavano e rispettavano, insieme funzionavano proprio. Ed avevano avuto molto tempo per parlare, conoscersi, confidarsi. Con naturalezza e fiducia si erano esposti reciprocamente dandosi conforto e risposte. Un pensiero comune li aveva legati: i loro rispettivi rapporti, le proprie relazioni, la professione. Senza dirselo apertamente avevano intuito come fosse facile parlare con un quasi sconosciuto, aprendosi sinceramente come forse mai prima, raccontandosi anche nei più intimi dettagli. E senza la paura di un giudizio o pregiudizio nell’ascoltare il parere dell’altro. Stare dentro ad un rapporto consolidato e sereno, apparentemente perfetto, dove però manca qualcosa che non si riesce a definire ma che pare essere ciò che forse non ti fa vivere a pieno. E nemmeno il successo professionale, la famiglia ed i figli, i progetti con la propria metà, anche il sesso, sembrano non bastare per sentirsi pieni e soddisfatti. Avevano parlato a lungo di quella sensazione, sentendosi come dei viziati ingrati di fronte ad una vita invidiabile, con compagni fedeli e amorevoli, figli sani e bellissimi, una professione che anche nel momento della crisi globale continuava a sostenerli.

“…un i-pod…”

Umberto istintivamente abbracciò Giuly e la baciò con gratitudine sulla guancia.

“…ho inserito un pezzo, un’unica traccia, puoi bene immaginare quale sia…per farti ricordare, ogni volta che la riascolterai…questi magnifici giorni…”

Umberto abbassò gli occhi a terra. Giuly arretrò.
Si guardarono, a distanza, restarono qualche secondo in silenzio.
Ancora goffi sorrisi.
Nessuno riusciva a dire qualcosa, a prendere l’iniziativa per rompere quel momento, eppure erano stati due fiumi in piena di parole in quei giorni, ora invece stavano immobili imbalsamati con sorrisi ebeti.

Giuly prese una busta dalla tasca e la diede a Umberto.
Lui la prese, l’aprì, tirò fuori un foglio.

“…immaginavo che saremmo prima o poi arrivati ad un momento simile, per questo ho preferito scriverti ciò che penso…sarebbe stato impossibile dirtelo a parole…perciò…” Umberto la guardò. Annuì come a rassicurarla. Prese dalla sua tasca una busta e gliela allungò.
Risero in contemporanea.

“…abbiamo sempre le stesse idee…posso leggerla?”

Umberto annuì sorridendo.
Giuly aprì la busta, poi un foglio.
Si spostarono istintivamente in due punti della stanza distanti quasi a volersi dare reciprocamente lo spazio necessario ad una lettura più intima e riservata.
Ogni tanto si guardavano e sorridevano, nervosamente.
Umberto finì per primo. Si passò una mano sul viso, si sedette sulla poltroncina che si trovava alle sue spalle.
Dopo un attimo anche Giuly finì la sua.
Si passò una mano nervosamente nei capelli, si appoggiò al letto, fino a sedersi sul bordo.

“Mi chiedo spesso prima d’addormentarmi quale sia stata l’ultima volta in cui mi sono sentita felice. E quando mi pongo questa domanda ci penso sempre un po’, impegnandomi, volendo essere sincera con me stessa. In realtà non riesco a ricordarlo. E’ così che spesso m’addormento ricercando un frammento di piacere per poi svegliarmi all’improvviso, nel cuore della notte, o forse solo alcuni minuti dopo, vittima di quello che mi pare un incubo terribile e non trovare nessuno che mi voglia o possa consolare. Sola, nel buio della camera, un senso di vuoto che mi devasta…”

Dopo aver letto ad alta voce Umberto alzò gli occhi verso la donna.

“La vita è strana. Quando pensi di avere tutto, almeno ciò che sembra necessario, senti improvvisamente che il vuoto prende il sopravvento trasformando tutto in qualcosa d’incolmabile. E la delusione che arriva improvvisa, una situazione che mai avresti pensato, il cambiamento di ogni prospettiva. L’idea consolidata era quella d’aver incanalato la propria vita e tutto torna in discussione. E tu non hai scelto niente. Nel bene o nel male…”

Giuly si fermò. Alzò gli occhi dal foglio.

I due si guardarono, l’imbarazzo di pochi minuti prima sparito dai loro visi come spazzato via dalla verità di quelle parole, si avvicinarono fissandosi nel silenzio. Si abbracciarono.

Riuscire a definire l’importanza della condivisione dei pensieri, il valore di quella che banalmente da molti viene definita amicizia, e da altri, superficialmente, amore, è il primo passo per confrontarsi con i propri demoni con i quali, prima o poi, bisogna fare i conti. Si può tentare di vincere da soli, ma è impresa ardua, difficile. I più fortunati possono essere sostenuti da chi , nel profondo, vive o ha vissuto la stessa esperienza.

E’ un dono incontrare chi sa comprendere senza bisogno di spiegazioni la complicata lingua della sofferenza.


mercoledì 17 giugno 2015

post 152: delirio d’onnipotenza (Racconti imperfetti - ed. Starrylink 2004)


Prologo
Alberto Argellini lavorava in banca: gestiva enormi quantità di denaro con tale abilità da renderlo doppio con una scelta immediata azzeccata. Era un uomo dotato di talento, a volte sapeva essere implacabile, non si fermava davanti a niente. Era sicuro delle sue capacità.
Voleva arrivare in alto a prescindere dalle indicazioni che il destino gli aveva dato: umili origini, difficoltà ovunque, nessun aiuto.
Ma lui andò oltre a tutto ciò.
Pensava che il destino ognuno se lo costruisce con le proprie capacità, con il proprio talento, con la voglia di farcela.
Stava salendo nella gerarchia del suo istituto grazie ai numeri stabiliti sul campo. E ciò non piaceva ai suoi colleghi, del resto chi è bravo da fastidio. Ma a lui questo poco importava perché si sentiva diverso dalla moltitudine di mediocri di cui il mondo è pieno. Si era conquistato tutto da solo: rispetto, successo, potere, odio, gelosie, invidia. Osannato da chi gli stava sopra, odiato da chi era ancora sotto.
Queste sono le regole del gioco. E lui lo sapeva bene.
Ma un giorno tutto cambiò, all’improvviso.
Ed iniziò la sua discesa nel baratro.

Il fatto
Antonio Basetti, un eroinomane sieropositivo senza ormai più possibilità di scampo, decise in un mattina di marzo che il contenuto della cassaforte della banca dove lavorava Alberto Argellini doveva essere suo, come se quello che stava la dentro potesse risolvere i suoi problemi.
Antonio dimostrò la sua volontà brandendo un taglierino insanguinato e minacciando chiunque tentasse di avvicinarlo.
Urlava come un forsennato le sue ragioni.
Il cassiere Righi lo guardava impietrito apparen-temente attento a non provocare reazioni inconsulte.
Appena l’eroinomane Basetti bestemmiò contro di lui tentando di punzecchiarlo con la sua velenosa arma le due ragazze, Marika Tusco e Jennifer Calarchi, che stavano in coda allo sportello, si gettarono a terra strillando la loro paura tenendo però ben stretto tra le mani il denaro per pagare l’Iva.
Anche il pensionato Gianmario Artusi, dopo aver ripetuto il suo palmares meritevole di rispetto, era un Cavaliere di Vittorio Veneto, si ritrovò a terra spinto da una manata dell’invasato rapinatore.
Giusy Gamberetti il vicedirettore, in quel momento la più alta in grado presente, tentò di dissuadere l’uomo col taglierino ma per tutta risposta questi le mollò un violento sganassone che la fece ribaltare a terra senza sensi. Del resto il pensionato Artusi l’aveva fatto arrabbiare, tenne a sottolineare Basetti, legittimando così l’inevitabilità del suo gesto.
La donna si trovò pancia sotto con la gonna del suo bel tailleur, tipo Chanel, rivoltata.
Un attimo irreale in quel delirio.
Per alcuni secondi tutti i presenti si distrassero sulle calze autoreggenti nere velatissime della vice e sul minimo perizoma color carne che facevano bella mostra di loro nel mezzo di quell’incubo.
Anche l’eroinomane Basetti ebbe un sussulto: è proprio vero che di fronte a certe cose nemmeno l’eroina ti può distrarre.
In quell’istante Alberto Argellini si alzò deciso dalla sua scrivania, afferrò un righello da trentadue centimetri, e s’avvicinò sicuro al rapinatore.
L’imbestialito eroinomane gli sbraitò contro.
Le due ragazze distese a terra tentarono di arginare il suo impeto ma Alberto le tranquillizzò ricordando i suoi trascorsi di fiorettista.
Era stato quasi azzurro di scherma, ci avrebbe pensato lui.
Il pensionato Artusi lo spronò ad attaccare. Un duello all’arma bianca, come le “sue” battaglie della prima guerra mondiale, baionette contro baionette, sciabole contro sciabole, pugnali contro…
Ma l’eroinomane Basetti senza preavviso l’attaccò.
Alberto Argellini parò d’istinto il tentativo d’affondo. Ritornò in assetto ripartendo poi di slancio. Seguirono una veloce serie di colpi reciproci parati alla fine dei quali Alberto riuscì a disarmarlo. Il taglierino insanguinato rimbalzò due volte sul pavimento in marmo della banca prima di fermarsi.
Sussulto di stupore delle due donne sdraiate.
Il pensionato Artusi tentò di afferrarlo ma l’eroinomane Basetti gli rifilò un calcio in pieno volto che lo tramortì al suolo. Alberto approfittò del momento e si gettò disperato verso l’arma ma fu anticipato di un istante. Quello fatale: l’eroinomane Basetti gli sfregiò il viso con una grande X prima di conficcarglielo dritto nel petto.
Alberto, faccia crociata grondante sangue, barcollò per un istante.
Il righello gli cadde dalla mano mentre s’afflosciava sulle ginocchia.
Restò qualche secondo in quella posizione nel silenzio irreale che ormai saturava tutto.
Poi rovinò a terra con un ultimo gemito di dolore.
Il cassiere Righi, fino a quel momento una statua di sale, al tonfo disperato del collega tirò fuori, da sotto il bancone, una 44 Magnum e sparò un unico preciso colpo in mezzo agli occhi dell’eroinomane Basetti.
In un istante mise fine ai problemi di tutti.
La banca in quei cinque minuti si era trasformata in un mattatoio.
Due corpi a terra, una pozza di sangue grande come il lago di Garda, Marika Tusco e Jennifer Calarchi corsero fuori strillando disperatamente, il pensionato Artusi con la mandibola rotta, il vice direttore Giusy Gamberetti a terra svenuta con il culo al vento, Alberto Argellini con un taglierino conficcato nel petto, l’eroinomane Basetti con un buco in fronte appoggiato al muro come un burattino a cui sono stati tagliati i fili.
Il cassiere Righi, occhi allucinati, fermo con l’arma puntata fumante in mano.

Le conseguenze
Un’ambulanza corse impazzita per le strade intasate del centro storico, la sirena a fare da colonna sonora al drammatico epilogo, il buio del baratro che si stava impossessando della mente di Alberto.
Il bip della macchina che registrava il suo battito che cessò di colpo mutandosi in un monotonico sibilo funebre.
L’immagine davanti agli occhi insanguinati di Alberto s’appannò per annerirsi come volesse indicargli che la fine era giunta.
Ma grazie ad un pronto massaggio cardiaco, operato dal coraggioso medico dell’autoambulanza, si salvò.
Dopo diciotto ore d’incoscienza Alberto Argellini si svegliò nella camera d’ospedale. Appena aprì gli occhi si sentì subito meglio. Un medico lo informò che tutto era andato per il meglio. L’operazione era riuscita perfettamente e non aveva neppure contratto l’aids perché Basetti era sieronegativo. Gli sarebbero rimasti come ricordo cinquantasei punti sul viso ed una diecina sul petto. Ma in fin dei conti poteva anche accettarli. Ebbe la conferma di essere una persona speciale, il destino si era nuovamente piegato alle sue necessità.
Gli uomini di talento non si possono sprecare.
S’addormentò rasserenato.
La mattina dopo appena aprì gli occhi vide due Carabinieri fermi sulla porta della sua camera.
Sgranò gli occhi. Fu accusato di essere il basista di quel tentativo di rapina.
Ma lui non c’entrava niente con quella rapina. A nulla valsero le sue parole.
Uscito dall’ospedale subì un processo, venne condannato.
Finì in galera.
Non si rassegnò, quello che stava accadendo non era giusto, soprattutto non poteva succedere ad uno come lui.
Alberto Argellini pensava ogni notte prima di addormentarsi a cosa era successo. Cercava una prova, un dettaglio sfuggito, solo lui avrebbe potuto trovarlo.
Ci pensava e ripensava.
In fondo lui aveva tentato di sventarla quella rapina, si era opposto a quel tossico con il suo righello. Lui era stato l’eroe sfortunato della vicenda. Altro che basista, lui portava una x sul viso, s’era beccato un taglierino non infetto in pieno petto, che cosa ci avrebbe guadagnato a fare ciò che dicono avrebbe fatto?
In carcere però non era facile indagare.
Il suo compagno di cella Cataldo Compana, un malavitoso barese che si faceva chiamare Sabir, lo prese sotto la sua ala protettiva. Gli evitò tutte quelle situazioni negative che la vita in galera offre. E non volle nulla in cambio.
Alberto Argellini pensò a quello come ad un altro segno della sua predestinazione.
Scoprì, attraverso alcuni amici di Sabir, che il cassiere Righi definito dalla stampa “l’eroico cassiere che sventò la sanguinosa rapina del sette marzo”, era stato gratificato dall’istituto con un premio in denaro ed un importante posizione all’interno della banca stessa.
Era diventato il responsabile della filiale, quella in cui lavorava Alberto.
Ecco chi aveva guadagnato da quella vicenda.
Il cassiere Righi aveva organizzato un assurdo piano per farlo fuori e prendersi quel posto tanto ambito. Aveva tramato nell’ombra inscenando una finta rapina, ingaggiando un tossico sieronegativo, per poi risolvere tutto quel casino con un eroico colpo di pistola.
Una follia.
Ma ora tutto era chiaro. Giustizia sarebbe stata fatta.

L’epilogo
E così fu.
In poco tempo Alberto Argellini uscì dal carcere.
Un avvocato, legato a qualcuno che stava molto in alto, si offrì di aiutarlo gratuitamente. E senza strani trucchi lo fece scagionare. Con le prove vere, senza inganni.
La giustizia trionfò.
Alberto non ci poteva credere anche se in cuor suo sapeva che quello era il giusto e meritato epilogo; finalmente libero, pronto a riprendersi quello che era suo.
Del resto chi ha talento ha qualche diritto in più.
Niente e nessuno poteva permettersi di fermarlo.
Arrivò il grande giorno.
Alberto Argellini, uomo arrivato al successo e poi sceso nel baratro dell’inferno, era pronto a tornare in sella. Scagionato, pulito, liberato da ogni accusa. Risarcito dalla sorte e dalla giustizia. Era felice, pronto a ricominciare, teso come il primo giorno di scuola. Stava dall’altra parte della strada. Osservava la porta d’ingresso della sua banca, con orgoglio era pronto a varcarla.
Partì deciso dopo un bel respiro.
Un lacrima di commozione gli appannò la vista.
Alberto si fermò, s’asciugò, sorrise.
Un colpo di clacson lo distolse da quell’attimo d’emozione.
Stava in mezzo alla strada, non se ne era accorto, un’auto frenò disperatamente per evitarlo.
Un tonfo sordo.
Stava a terra, sotto l’auto, il pneu-matico che gli premeva il torace, guardava verso il cielo. Respirava a fatica. Arrivarono i primi soccorsi. Guardò la gomma.

“…fate presto, per favore…sta sgualcendo il mio abito nuovo…”

Alberto era preoccupato più dalla giacca rovinata che dall’auto che lo comprimeva al suolo.
Era certo che non potesse finire così la sua vita.

Invece quello fu il suo ultimo pensiero.


lunedì 15 giugno 2015

post 151: estratto capitolo 2° (Maionese - ed. Starrylink 2003)



Fisicamente sono cresciuta in modo strano, per essere precisi, in tempi diversi e direzioni opposte.
Prima verso il largo e poi verso l’alto.
A dodici anni, momento in cui cominci a capire se nella vita farai parte di quelle che sono inseguite o di quelle che devono inseguire, mi ritrovavo imprigionata in un corpo che non corrispondeva ai canoni della piena soddisfazione personale. Ero una cicciona, così alcuni stronzetti mi chiamavano; ed in più avevo tutto ciò che porta alla discriminazione sociale come l’acne, le gambe arcuate, l’apparecchio per raddrizzare i denti ed infine un bel paio di occhialoni con lenti così spesse da non riuscire a distinguere esattamente il colore degli occhi.
Un disastro.
Mi piaceva tanto la maionese, in qualunque forma e dimensione, il che non agevolava tutti i processi di cui ero già naturalmente vittima.
Però quando sei in perenne depressione e non intravedi nemmeno uno spiraglio di luce, ti attacchi morbosamente a qualunque cosa ti possa dare gratificazione.
La maionese, appunto.
Buona, quella fatta in casa, ricca d’olio ed uova, irresistibile con il dolce e con il salato.
Ma anche quella in tubetto, più commerciale, andava bene nei momenti peggiori.

Nessuno mi degnava di uno sguardo, d’una attenzione.
I ragazzi che sembravano simpatici nei rapporti ravvicinati mi snobbavano, le mie coetanee mi guardavano dall’alto verso il basso sogghignando quando nello spogliatoio della palestra dovevamo cambiarci prima dell’ora di ginnastica.
Quello che accadde nella mia vita non ricoprì un posto così importante rispetto a quello che pensavo avrebbe potuto ricoprire nella mente di una donna.
Ed appunto, all’improvviso, diventai donna.
Il copioso flusso rosso che un giorno mi sgorgò tra le cosce fu il segnale che mi diede la consapevolezza che finalmente l’ora era giunta.
Ero stata in attesa per tutto quel tempo dovendo subire ogni cosa.
Non che lo aspettassi con trepidazione ma, quando arrivò, fu così normale lo scattare in me di quell’interruttore che mi fece diventare subito mentalmente una donna che si sarebbe ripresa tutto quello che fino a quel momento le era stato sottratto.
Diventare donna, o meglio, essere donna nella testa e nel corpo.
E come per volontà di una forza superiore della natura anche il mio corpo decise di assecondare le mie volontà.
E quasi per incanto, in pochi mesi, mi trasformai in ciò che sono oggi: una bellezza sfolgorante.
E’ così che mi definisce la maggior parte degli uomini che incontro e l’altra parte, degli uomini, lo fa in termini spesso irripetibili.
Ero diventata irresistibile.
E mi piaceva. Meno facevo per atteggiarmi e più successo riscontravo.

Ho continuato a mangiare maionese.
Non tanta come prima ma abbastanza per farmi sempre ricordare da dove venivo.
Come fosse questo l’unico modo per mantenere il contatto con le mie radici.


sabato 13 giugno 2015

post 150: le regole dell’apparenza (Por-tion – inedito 2013)



Giovanna era una bella donna, da poco aveva ventisei anni, alta e bionda con gli occhi verdi. Laureata in economia e commercio con il massimo dei voti. Davanti a lei aveva una luminosa carriera, perché era ciò che voleva fare, anzi che doveva fare. Ciò che tutti si aspettavano da lei.

1° GIORNO

Dieci della sera.
Giovanna stava per uscire, indossava un tailleur molto serio, poi infilò velocemente nella borsa altri indumenti ed un paio di scarpe dal tacco vertiginoso. Quando si trovò sulla porta di casa il padre le si fece incontro. Cercò in modo sbrigativo di evitarlo, ma non ci riuscì, il padre iniziò una sorta d’interrogatorio seppur usando modi pacati.
“Come sei bella tesoro. Raggiungi le tue amiche?...immagino che ceniate insieme e poi festeggerete per tutta la notte?”
Giovanna rispose meccanicamente annuendo col capo, cercò di svicolare dalla porta baciandolo sulla guancia, l’uomo notò la grande borsa della figlia e subito commentò quando fosse inadeguata al resto del suo abbigliamento.
Troppo sportiva.
Proprio in quell’istante Giovanna s’accorse che uno degli indumenti prima infilati fuoriusciva. E forse anche il padre l’aveva visto. Si agitò ancor più di quanto già non fosse.
“Ci sono affezionata…” disse portandosela sulla spalla.
L’uomo sorrise rassicurante senza però evitarle un’ultima raccomandazione.
“Ricordati sempre chi sei, che famiglia siamo, il ruolo e il prestigio che abbiamo, sono cose da non dimenticare mai, soprattutto ora che stai per sposarti, ci siamo capiti?”
Giovanna lo sapeva, erano discorsi che conosceva fin da bambina, non fare mai brutta figura, rispettare sempre il buon nome della sua famiglia ed ora pure del futuro marito, insomma, comportarsi “come si deve”.
Il padre la baciò amorevolmente in fronte e poi la guardò orgoglioso mentre usciva dalla porta. Appena fuori Giovanna sbuffò e chiuse con gesto secco la cerniera della borsa.
[Quanto mi rompe le palle quando è così…ma crede che io abbia sempre dieci anni? non si è reso conto che sono una donna?...gli voglio tanto bene ma a volte è veramente pesante, e mi sto pure per sposare!]...pensò infastidita mentre scendeva velocemente le scale.
Marco era pronto ad uscire di casa.
Vestiva un abito scuro molto elegante.
Entrò in camera sua il fratello Giacomo con in mano alcune cravatte. Le mise di fronte a Marco consigliandolo di cambiare quella che aveva indossato, troppo sgargiante, ne scegliesse una dal suo mazzo.
“Ho pensato che la serata al circolo per festeggiare la tua ultima notte da single meritasse un abbigliamento un po’ meno formale del solito…” disse Marco come a volersi giustificare.
“E’ meglio questa…”
Giacomo gli allungò una cravatta Regimental molto seria che Marco indossò senza più obiettare. Restò sotto osservazione mentre se l’annodava, perfettamente, un attimo di silenzio. Marco ebbe un’esitazione mentre il fratello annuiva sicuro.
“Ah, una cosa…se poi la serata si dovesse protrarre…” gli infilò un bigliettino nel taschino della giacca “…questo è il numero di un’amica, Michela, con lei ed alcune amiche vi potrete divertire in totale sicurezza, in fondo siamo sempre dei conti, il nostro lignaggio c’impone discrezione…”
Marco sapeva benissimo come doveva comportarsi ma il fratello era stato così serio, come sempre del resto, assumendo un tono che non ammetteva repliche.
“Non fare cazzate, se ti servono puttane hai il numero, se hai bisogno d’altro mi fai una telefonata. Ma niente cose strane in luoghi pubblici, sai quanto ci tengono papà e mamma, ci siamo capiti?”
Marco annuì con il capo mentre si guardava allo specchio.
[Cosa cazzo me ne frega della cravatta? Forse non hai capito dove sto andando? Quando imparerai a farti i cazzi tuoi? E poi il bigliettino con il numero di una mignotta…quanto sei anni ottanta fratello mio…]
Poi uscì di casa.
Giovanna guidava la sua auto.
Non aveva l’aria serena di chi stava per divertirsi, forse ripensava al padre, o forse ad altro.
Anche Marco guidava anch’egli con l’aria svagata. S’accese una sigaretta. Prese il cellulare.
Mentre stava per parcheggiare squillò il cellulare, Giovanna rispose ed il suo tono, all’improvviso, cambiò.
S’aprì sul suo viso un bel sorriso e la voce diventò dolcissima.
“Amore mio, come va?…io bene, sono quasi arrivata, Silvia e Roberta dovrebbero già essere lì, e tu?”
Marco guidava parlando al telefono.
“Tutto bene amore, sto per arrivare al circolo…”
“Ho appena parcheggiato…” disse Giovanna.
“…bene, buona serata, e divertiti…” disse Marco.
“…anche tu amore mio…ti aspetto domattina davanti alla chiesa…” aprendosi in sorriso.
“…non vedo l’ora…ti amo” chiuse Marco.
Marco parcheggiò.
Prima di uscire dall’auto si diede un’occhiata nello specchietto, si tolse la Regimental e la buttò senza troppa cura sul sedile posteriore, si sbottonò i primi due bottoni della camicia. S’assestò i capelli ed uscì.
Giovanna spense il telefono e lo mise nel cassettino dell’auto, il suo sguardo tornò svagato, poi di colpo accelerò il suo ritmo. Si guardò attorno e, appena sicura che nessuno passasse, prese dalla borsa gli abiti che aveva nascosto e si cambiò velocemente.
Marco arrivò all’ingresso di un locale, il Degrado, aveva l’aria sicura. Davanti stazionava un uomo in elegante completo grigio. Alto, possente, ray-ban specchiato, auricolare. Marco lo salutò con un cenno del capo e l’uomo lo fece entrare.
Dentro era un grande capannone, luci basse e musica tecno, molte persone. Alcune ballavano, altre appartate in angoli bui, cubiste e cubisti seminudi si dimenavano su delle pedane. Marco si diresse al bar e ordinò un drink.
Giovanna arrivò davanti al Degrado con passo svelto, il suo look era ben più aggressivo se non altro per i tacchi alti che portava con disinvoltura, l’uomo corpulento la riconobbe e la fece entrare.
Marco seduto su dei divanetti chiacchierava con due ragazze molto carine, ridevano divertiti, bevendo champagne. Una delle due tirò fuori della cocaina che iniziarono a sniffare.
Giovanna ballava scatenata nel centro della pista, circondata da molte persone alcune delle quali si strusciavano sfacciatamente, replicando e ammiccando divertita. Marco passò abbracciato alle due ragazze, arrivò in una parte del locale dove c’erano varie stanze nel quali s‘intravvedevano persone appartate in atteggiamenti complici.
Arrivarono ad un porta che faceva accedere ad una dark room. Le due ragazze entrarono ma Marco non le seguì immediatamente: la sua attenzione fu catturata da una donna che si sta avvicinando. Quella donna era Giovanna che stava, dalla parte opposte del locale, giungendo allo stesso ingresso della dark room.
Marco e Giovanna si trovarono di fronte.
Si osservarono in silenzio, poi un sorriso, infine Marco le carezzò il viso. Giovanna ricambiò cingendogli i fianchi. Si baciarono e poi, dopo uno sguardo complice, entrarono nella stanza buia.
Nella totale oscurità i due finirono in un angolo e sopra un divano consumarono un lussurioso amplesso.

2° GIORNO

Mattino.
Ora undici.
Il sagrato di una chiesa era illuminato da un bellissimo sole.
Alcune persone vestite molto elegantemente attendevano gli sposi. Arrivò un’auto da cui scese una donna in abito bianco. Era Giovanna, raggiante, scattarono gli applausi. Ad accompagnarla il padre: ma quando furono pronti ad entrare in chiesa vennero bloccati da un giovane curato che si mise in mezzo alla loro traiettoria.
“Si fermi signorina, dobbiamo attendere ancora qualche minuto…”
Si fece avanti dalla folla di persone un uomo sui quarantacinque, stempiato e bruttino, seppur vestito con un abito griffato. Era il futuro marito di Giovanna.
Il suo viso era furente.
[Che cazzo vuoi insulso pretino? Tu non sai chi sono io? Con tutti i soldi che sgancio alla parrocchia, mi fai pure aspettare! Io ti spacco la faccia!]
Dopo un attimo, sentite le ragioni del giovane curato, iniziò ad urlare, chiese dove fosse il parroco, non voleva aspettare un secondo di più.
Ci furono attimi d’imbarazzo collettivo.
Ma proprio in quell’istante dalla chiesa uscì la coppia che s’è appena sposata e causa del ritardo. Giovanna li osservò e riconobbe Marco al fianco della sua fresca sposa che sorrideva felice per il passo appena compiuto accarezzandosi dolcemente il vistoso dono che le cresceva nel ventre.
Giovanna sgranò incredula gli occhi.
Piovve riso.
Il futuro marito di Giovanna, senza troppi complimenti ed usando termini poco gentili, la trascinò quasi a peso morto verso l’ingresso della chiesa.
Le due coppie s’avvicinarono camminando in direzioni opposte, i due sposati che uscivano, i due da sposare che entravano.
Quando furono vicini anche Marco riconobbe Giovanna, si fissarono negli occhi, ma solo per un istante.
Giovanna s’avvicinò all’altare come un automa.
Marco posò per le prime foto di rito imbalsamato.
Quell’attimo del loro guardarsi era stato sufficiente a farli volare altrove con la mente.

Irrimediabilmente.