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mercoledì 28 maggio 2014

Again: come l’ultima foglia rimasta sul ramo (3 marzo 2014)


 

 

Questa è la storia di Gerardo, un uomo di trentacinque anni, che sarebbe diventato mio vicino di casa. Dopo aver traslocato dall’appartamento che avevo diviso con Giovanni, il quale m’aveva invitato a trovarmi altra sistemazione visto che lui ed Ivana intendevano convivere, riparai in un minuscolo ma delizioso –si dice così in questi casi- monolocale arredato con una sola finestra, bagno cieco, posto all’ultimo piano di una palazzina della prima periferia della città. A me bastava, in fondo ci dovevo solo dormire e scrivere, niente di più. Quando arrivai con gli scatoloni contenenti le mie poche cose incontrai sulle scale un uomo barbuto –Gerardo- che sorridendo si offrì di aiutarmi. Fu gentile ed io come segno di gratitudine gli offrii un caffè, facemmo una chiacchierata. Lui era il proprietario dell’appartamento confinante al mio e lo stava completamente ristrutturando visto che di lì a poco si sarebbe trasferito con Edvige sua prossima moglie. Era raggiante, aspettava con ansia quel giorno, per lui cattolico osservante. Una brava persona che oltre al lavoro in officina –riparava auto-moto veicoli dallo zio- s’impegnava molto nel volontariato conducendo corsi di catechismo all’oratorio della chiesa che distava pochi passi da casa, seguendo i ragazzini più problematici del quartiere insieme alla sua fidanzata Edvige –anche lei catechista volontaria in parrocchia-, e proprio in quelle occasioni si erano conosciuti ed innamorati.

Mi fece sorride, nel senso buono, l’entusiasmo con cui mi raccontò la sua vita. Era il classico maschio sognatore, con l’aggravante romantica, ma quella volta non volli farmi idee sbagliate e continuai ad ascoltarlo. Dopo il suo monologo mi chiese che cosa facessi, se avessi una fidanzata, eccetera…per non deluderlo inventai qualcosa che lui potesse apprezzare –visto che non potevo di certo dirgli che scrivevo storie erotiche sul web per mantenermi e che di fidanzate non ne avevo mai avuta una ma solo molte amanti occasionali-. Perciò mi dichiarai studente universitario in teologia in quel momento impegnato alla stesura di un saggio incentrato sulle lettere di Paolo di Tarso –mi venne così, fu la cosa più cattolica che riuscii a pensare in un secondo-. Mi guardò sorridendo: avevo colpito nel segno tanto che non si azzardò più a tornare sull’argomento.

Mi mostrò la casa che stava ristrutturando: un appartamento che si era comprato con tutti i suoi risparmi uniti ad un mutuo devastante, ma lui era fiero ed incurante della difficoltà che si era assunto, mi raccontò della cucina che stava costruendo con l’aiuto degli ex-tossici di una comunità in cui prestava volontariato e poi tutta una lunga storia sull’impianto dall’allarme con tanto di microcamere di sicurezza. Parlò del futuro, dei figli, dell’importanza della fede. Infine arrivammo in camera da letto e si bloccò quasi imbarazzato. Io sorrisi, in fondo è normale che in una casa ci sia una camera da letto, ma per lui quello era un luogo importante quasi sacro dove avrebbe condiviso la sua intimità solo con la donna che avrebbe sposato. Capii al volo la situazione e glissai con un borbottio d’assenso. In praticata non aveva c’aveva mai scopato e la sua donna era chiaramente vergine. Tutto nella logica cristiana della coppia, ma chi ero io per poter giudicare? Non feci altro che fargli tanti auguri ringraziandolo nuovamente per l’aiuto che m’aveva dato. Lui m’invitò per quel sabato pomeriggio all’oratorio, avrebbe voluto presentarmi la sua futura moglie Edvige, il parroco Don Arturo e tutti i ragazzi che seguivano.

Accettai. Non so perché. Ma lo feci.

 

Fu un pomeriggio abbastanza noioso, devo essere sincero, tutti mi sorridevano ed erano gentili, fin troppo. Edvige era in linea con le aspettative: una ragazzetta sui venticinque anni, minuta, smunta in viso. Vestita con colori deprimenti, capelli arruffati, un accenno di baffo non celato dal trucco –perché non lo usava-. Mi parve dolce nel suo modo di porsi e molto simile a Gerardo nei modi. Incontrai pure il parroco, un omino sui sessanta, stempiato con grande pancia tonda, spiccato accento napoletano, alito improbabile, implacabile con i ragazzini che lo guardavano con timore.

 

Circa un mese dopo, verso sera, Gerardo suonò alla mia porta. Aveva l’entusiasmo dipinto sul volto: la casa era pronta. Mi invitò a dare un’occhiata e poi voleva darmi una cosa. Lo seguii, anche se ero di fretta perché dopo poco sarei dovuto uscire per raggiungere un’amica. Gli dissi che avevo pochi minuti.

“Faremo presto…” disse radioso.

Mi mostrò il suo capolavoro: tutto pronto, perfetto, la cucina fatta a regola d’arte. Mi complimentai sinceramente. Evitai la camera da letto chiedendo cosa fosse la cosa che mi doveva dare: era l’invito al matrimonio. Rimasi sorpreso ma lo abbraccia con gioia. Mentre dicevo qualche cosa –le solite banalità tipiche dei momenti in cui non si sa cosa dire- aprendo la busta e leggendo il cartoncino, Gerardo accese il televisore e con uno strano telecomando armeggiò per qualche istante, poi comparirono delle immagini.

Era l’impianto di sicurezza, con orgoglio mi mostrò le varie inquadrature –tre- possibili e pure quella sul pianerottolo che avrebbe dato sicurezza pure a me. Non riuscivo a far altro che sorridere annuendo ebete.

“…e tutto si registra qui, in questo registratore digitale. Vedi, l’ho provato stanotte, vedi come funziona anche a luci spente, veramente impressionante…”

Si voltò guardandomi fiero ma alle sue spalle, in video, la scena era cambiata all’improvviso. Purtroppo lui si girò.

L’immagine fissa del soggiorno di casa all’improvviso s’illuminò. Gerardo sgranò gli occhi, nell’immagine apparve Edvige che entrava in casa. Gerardo tirò un sospiro di sollievo ma quando vide che la donna non chiudeva la porta dietro le spalle cambiò espressione.

“S’è fatto tardi, mi sa che devo proprio andare…” e feci per uscire ma lui non mi sentì essendo oramai entrato in un’altra dimensione.

Dietro ad Edvige un uomo, Don Arturo, e Gerardo ri-sgranò gli occhi. Si fermarono in mezzo alla stanza, lei s’inginocchiò come a pregare, lui rimase in piedi fermo. La ragazza alzò le mani ed il prete all’improvviso alzò la sua tonaca. Ed era nudo. Edvige ingoiò in un sol boccone il membro del sacerdote –che, tra l’altro, era dotato di strumento asinino. La famosa non categoria dei cazzi enormi che sempre piacciono…- ed iniziò una lavoro orale da urlo. In un attimo i due furono nudi, Edvige si appecorò sul tavolino in cristallo davanti al divano e fu montata dal prelato, senza soluzione di continuità, nei suoi due orifizi così oscenamente proposti all’incolpevole microcamera.

Pensai solo che fosse stata una fortuna che quel sistema di sicurezza non avesse l’audio; non riuscii a dire nulla e come un codardo m’allontanai. Gerardo restò immobile con quello strano telecomando in mano senza dire niente. Quando fui per le scale sentii distintamente un fracasso –di cristallo che va in frantumi- seguito da un bestemmione urlato stridulamente.

Quello che accadde dopo lo seppi dai giornali.

Gerardo, ancora sotto choc andò a casa dei genitori, prese il fucile da caccia del padre, e si catapultò in chiesa dove trovò, nella sagrestia, parroco e la fidanzata intenti a ripetere le stesse pratiche del video. Tentarono di negare l’evidente evidenza facendo esplodere completamente la rabbia di Gerardo che puntò l’arma contro i due amanti e li obbligò ad andare sull’altare. Li fece inginocchiare davanti al crocifisso obbligandoli a pentirsi mentre caricava, alle loro spalle, l’arma. Passò la canna del fucile sulle loro teste facendoli rabbrividire e poi chiese perdono a Dio per ciò che avrebbe fatto di li a poco. Edvige iniziò a piagnucolare disperata, Don Arturo tentò di convincerlo con una super cazzola –che ogni uomo è debole e può sbagliare, anche un prete può cadere in tentazione, e lui doveva vedere quella situazione come una prova del Signore, tentò addirittura di far passare quella situazione come un privilegio a lui riservato-.

Gerardo grugnì infastidito.

Quando tutto sembrava perso, all’improvviso, rivolse il fucile contro di se, fece girare i due a guardare l’orrida scena, trattennero il fiato attendendo lo sparo. Poi lo girò ancora verso i due che ebbero un sussulto ulteriore. Ma non successe nulla. Gerardo sembrò placarsi all’improvviso, abbassò l’arma a terra, Edvige e il Don tornarono a respirare come dopo un’apnea. Sul viso dell’uomo si dipinse un sorrisetto satanico.

“Mica sono scemo, uccidere o uccidermi per una troia e per un depravato, mi basta il terrore che avete provato…” disse loro a voce bassa iniziando poi a ridacchiare.

Gerardo si andò a costituire in caserma confessando quanto aveva fatto ma Edvige e il parroco negarono ogni cosa. Non era successo niente e quel ragazzo, forse troppo stressato dalla vita, era per loro uscito di senno. Non fu denunciato ma i giornali ne parlarono. Eccome.

Il parroco chiese il trasferimento alla Curia che lo spedì in una missione in India. Edvige non si riprese mai più da quell’esperienza tanto da finire, anni dopo, in un istituto psichiatrico. Gerardo vendette il tanto amato e poi odiato appartamento per trasferirsi in una piccola casa in legno sulle montagne vivendo come un eremita.

Nessuno ne seppe più nulla.

 

giovedì 22 maggio 2014

Again: adottare (15 febbraio 2014)


 

 

Essere genitori adottivi è un’esperienza assoluta destinata a pochi.

Un bambino adottato è come un tossico senza colpe o volontà d’essersi trovato in quel tunnel e dal quale ha poche possibilità d’uscire. E’ come “in quelli che si sono fatti d’acido” dove all’improvviso, soprattutto in momenti apparentemente tranquilli e senza un perché che la mente possa comprendere, il diavolo che silente in loro alberga spinge violentemente per uscire al di fuori ed esprimersi.

E ci riesce.

Essere genitori adottivi significa rendersi conto di questo ed essere pronti ad affrontarlo nel miglior modo possibile. Con la più grande capacità d’improvvisazione possibile. Tutto qui.

Fondamentalmente serve trovare la forza per resistere a quel diavolo tentando di domarlo, imparando a conoscerlo, sopportarlo nell’inevitabile stretta convivenza. E nel frattempo godersi tutta la parte bella che ogni bambino adottato esprime ancor più d’ogni altro essere vivente, in una forma e con la sostanza che riempiono all’infinito il cuore, rigenerandoti ogni volta nella forza e nella determinazione in attesa della lotta successiva.

E’ questo, un lieve equilibrio, il filo sottile dal quale è facile precipitare: il baratro più profondo da un lato, le vette assolute dall’altro.

 

Solo chi sa vivere come un funambolo può essere in grado di sopportarlo.

mercoledì 21 maggio 2014

Again: tradire (15 febbraio 2014)



 

Non ho mai pensato di tradire qualcuno.

Mio marito, nemmeno a pensarlo.

Però, la vita, è una continua prova. Si è messi di fronte alle tentazioni.

So di avere sbagliato, ma in certi momenti non riesci a ragione, l’istinto prende il sopravvento. Carlo era sempre impegnato fino a tardi, per via del lavoro, i nostri unici momenti d’intimità erano al mattino, in bagno. Mentre lui si faceva la barba davanti allo specchio scambiavamo qualche parola.

Ma poi c’erano le bambine, i loro impegni, le loro necessità, i loro vizi.

Essere madre è una grande responsabilità.

E forse non ne sono mai stata all’altezza.

 

Lo so, un errore fatto in buona fede è pur sempre un errore, e questo peso mi tormenta ancora.

Ogni volta che ci penso cerco attenuanti al mio comportamento, però è stato così evidente, davanti al sacerdote…e a Dio…quel giorno mi ero presa un impegno solenne, e non l’ho saputo rispettare.

E’ successo. Solo una volta. E per di più nemmeno è stata un’esperienza piacevole.

Forse con la persona sbagliata, soprattutto per le conseguenze, ma di quelle ora non voglio parlare.

Carlo non meritava tutto questo, lui si è sacrificato sempre per me, le nostre figlie, s’è ammazzato con il lavoro.

         Essere moglie è una grande responsabilità.

E forse non ne sono mai stata all’altezza.

martedì 20 maggio 2014

Again: creazione e creatività (12 febbraio 2014)


 

 

Errore comune, che spesso conduce a conclusioni sbagliate, è quello d’intendere la creazione come creatività. Si parla di una nuova creazione con leggerezza quasi blasfema, usando parole e significati, senza cognizione. La confusione generata innesca un meccanismo così perverso da far riconoscere come vero ciò che invece nasce da uno sbaglio grossolano.

In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque…

Sono i primi versi della Genesi, l’inizio della Bibbia, li conosciamo tutti -o quasi- definiscono come meglio non si sarebbe potuto la creazione compiuta da Dio e bastano due righe a differenziarla da ciò che facciamo noi comuni mortali. Nessun confronto, noi al nostro massimo possiamo essere creativi, cioè, adoperarci in azioni di creatività. E la creatività che sta dietro la realizzazione di un oggetto rappresenta un aspetto geniale oppure è solo il frutto d’artifizi o altro…insomma, il design è il frutto della creatività?

Se concordiamo sul fatto che le cose non sono design, che gli oggetti sono design se prodotti da geni, possiamo definire la creatività come il processo geniale che sta alla base del meccanismo. Ma la maggior parte di noi non è un genio perciò inquadrare un meccanismo tanto complesso da comprenderlo a fondo è operazione difficile se non impossibile.

La fantasia e il potere dell’immaginazione sono i motori trascinanti di un processo creativo. Rappresentano l’illuminazione che accende il buio della banalità e rende visibile ciò che sarebbe rimasto nascosto. Ma come partono questi meccanismi, cosa li stimola, dove stanno nascosti prima di esprimersi, tutti ne possediamo?

Un modo per definire ciò in maniera pratica e riscontrabile da ognuno è quello di usare qualcosa di cui tutti siamo dotati e sappiamo quantificare nonché valutare: il piacere.

Inteso come senso di godimento provocato da una situazione che viviamo o pensiamo. Fisico e mentale. Tutti sappiamo definire il piacere fisico –sessuale- quasi tutti quello mentale –intellettuale-. Senza entrare in discorsi filosofici o altro, facendola facile, restiamo al primo: ognuno di noi ha provato, a suo modo, l’esperienza dell’orgasmo.

Forte, intensa, unica, sublime, incommensurabile…ed altri centinaia di sinonimi. Nella mia esperienza professionale spesso la creatività migliore che ho saputo esprimere si è concretizzata proprio quando mi sono liberato dai vincoli castranti e/o catene mentali lasciando libera la mia voglia di sublimare con un’esperienza orgasmica. Ed il susseguente coinvolgimento in essa dei miei clienti ha dato vita a ciò che posso ritenere creatività.

Tutto gira attorno al piacere, quindi.

L’unico modo per essere in equilibrio è provare piacere da ciò che si fa, da ciò che si è, evitando inutilmente d’impegnarsi in qualcosa che con se stessi non ha nulla a che vedere. E’ un dettaglio che fa la differenza. Il denaro ed il potere non producono direttamente piacere, il senso di giustizia e correttezza nemmeno così come la soddisfazione, le vendetta, la rivincita, l’affermazione. La ricerca del piacere, come elemento indicatore, è una lotta che necessariamente si deve combattere per cercare di arrivare, almeno avvicinarsi, a ciò che determina la creatività. Un processo indispensabile che spesso rimane invisibile ai più ma necessario in quanto fatto evolutivo. Ma nel nostro mondo, in società sorde e cieche o solamente poco sensibili, l’orgasmo viene surrogato da altro: i ricchi sublimano col denaro, i potenti con la prepotenza e l’arroganza, i giusti con l’equilibrio ritrovato…eccetera…detta volgarmente, ad una donna bastano due seni finti ma non cadenti a sublimarsi ignorando il piacere provocato da una mano che li tocca sapientemente…così come a molti uomini è sufficiente un SUV full optional a sublimare la propria mascolinità.

Il design è il frutto della creatività? Si, a patto che sia opera di una mente geniale e non di un meccanismo truffaldino o non istintivo.

In allegato un piccolo vademecum in sette punti utile per alcuni momenti della vita, quando siamo indecisi, quando siamo vulnerabili.

 

Bisogna diffidare da chi si pone:

- come un genio senza averlo mai dimostrato;

- come inventore dell’acqua calda o di speciali ghiacciaie per eschimesi (è una metafora, valgono esempi simili), cioè di cose e non oggetti;

- come necessario per la nostra vita;

- come conveniente per ciò che propone;

- come rispettoso osservante del mondo umano e della natura;

- come depositario della verità assolute;

- come alternativa plausibile, o, l’unica rimasta.

 

         Se siamo in grado di uscire intatti da tutto ciò siamo pronti ad affrontare il secondo e conclusivo step che ci può condurre verso scelte a noi corrispondenti, ovvero, riconoscere la bellezza attraverso la ricerca del gusto.

Per ora basta ricordarci che creazione è affar divino, creatività è argomento geniale, noi moltitudine di comuni dobbiamo solo cercare di provare piacere. Se ne siamo ancora capaci.

lunedì 19 maggio 2014

Again: anima gemella (9 febbraio 2014)


 
 

La ricerca dell’anima gemella è spesso vana tanto che ci s’accontenta di credere possibile trasformare un’empatia in un sentimento indissolubile come quello che solo due anime identiche possono stabilire.

Aspettando, e soffrendo, si tenta assecondandosi e modificandosi alle necessità altrui di rendere migliore ciò che migliore non potrò mai essere: inconsciamente non è accontentarsi ma tentare di rendere meno disperata la propria esistenza. E anche se la certezza definitiva non è scritta si resiste ignorando che la logorante rinuncia a se stessi porterà a cambiare tanto fino a che, se pur quel momento tanto ambito dovesse compiersi, non sarà mai in grado di soddisfare il desiderio così a lungo forzatamente sopito.

Ma gli umani sanno continuare fino al punto di riuscire a credere in qualcosa d’impossibile percependolo come probabile o plausibile, semplicemente imponendoselo, certi che sofferenze e indifferenze saranno state il necessario prezzo da pagare per giungere all’equilibrio agognato.

E questo sembra bastare.

Anche se nulla intanto cambia.

E quello che resta è solo un continuo attendere.

venerdì 16 maggio 2014

Again: solitudine (8 febbraio 2014)


 

 

Non ho paura della solitudine. Io, solo con me stesso, sto bene. Mi basto, almeno non soffro la compagnia di qualcuno indesiderato, so quando tacere i miei pensieri perché ho necessità di silenzio. E’ così sottovalutata la possibilità che si ha di starsene zitti, anche con se stessi, nell’intimità della propria mente.

Soli son quelli che si spaventano a rapportarsi con se stessi. Che corrono inquieti ricercando una presenza fisica a cui proporsi in discorsi auto referenzianti che riguardano senza mai dirla un’unica cosa: la paura d’affrontarsi.

Solo sto bene, nemmeno l’idea che la solitudine possa evocare il silenzio ultimo della morte può spaventarmi, penso a chi non c’è più grazie al ricordo che mi è restato. E perciò dovrei spaventarmi? Per qualcosa di ignoto, per la paura del distacco, o forse più banalmente per il timore di soffrire anche fisicamente nel trapasso dal terreno a ciò che esiste dopo?

Solo, per me, significa pieno.

Di me stesso, dei miei pensieri, espressi senza filtro o censura.

Momento che vale per quello che è, l’occasione migliore per comprendere i miei desideri senza dover usare mille parole che non riuscirebbero nemmeno a delinearne il contorno, mai.

 

giovedì 15 maggio 2014

Again: il design del futuro (7 febbraio 2014)


 

 

         Il nostro mondo è pieno di cose.

         Talmente tante che non stiamo più a chiederci nulla rispetto al loro significato, o valore, o necessità. Passiamo oltre e con il tempo diventano parte del nostro corredo - arredamento mentale - tanto da renderci incapaci di disfarcene il giorno in cui, per una mera mancanza di spazio, le spostiamo e perciò le degniamo, dopo tanto distacco, d’uno sguardo.

In verità non siamo disposti a staccarci da niente, da nulla, forse è solo l’ancestrale terrore dell’abbandono. Più probabilmente è la superficiale condizione di banalità a cui il mondo oggi è arrivato che ci costringe, in qualche modo, a farlo. Non si pensa, e se lo si prova a fare, il tentativo è sempre quello di usare scorciatoie mentali per risolvere un problema nel modo più comodo e rapido possibile.

         L’appiattimento complessivo ha ridotto tutto e tutti ad una sorta di conclamata dipendenza da cose che si ritrovano in ogni casa…cose e casa…cose di casa…siamo tutti proprietari di cose identiche dall’identico inutilizzo, la gerarchia sociale si è andata a stabilizzare su livelli d’appartenenza rispetto a quanto possediamo in virtù del soggettivo potere economico. Livelli: dal basso verso l’alto. Ovviamente. Dalle cose realizzate secondo grandi produzioni industriali, a qualcosa di più evoluto, infine a ciò che è esclusivo o appare tale. Così la società si è divisa e quindi strutturata: la necessità è quella di chi sta in basso d’avere cose appartenenti ai livelli superiori tanto per potersi affermare e farsi riconoscere negli stessi. E così, per chi sta sopra, sempre più cose per consolidarsi nel livello conquistato.

         Fa molta paura chi si pone per quello che è: il mondo si è abituato ed assuefatto alla modalità mascherata dell’anima. E’ più semplice e meno rischioso apparire per ciò che gli altri riconoscono, mimetizzandosi e proteggendosi dietro personalità altrui, piuttosto che concedersi nudi e reali senza più reclinare la testa agli eventi.

Questo fatto, semplicemente, si chiama moda o stile o tendenza, forse in realtà solo una vergognosa menzogna atta a creare interesse e profitto.

         Ma allora, moda, stile, tendenza, a cosa si riferiscono? Ad un puro meccanismo commerciale ben pensato e realizzato –produzione di massa e marketing appropriato- oppure, un’onda emotiva che trascina le masse in una direzione comune –monopolio intellettuale discendente dallo stile reality show- o forse l’opinione enunciata da privilegiati oratori –critici ed esperti e/o presunti tali- che definisce una sottile invisibile linea di confine stabilendo l’in e l’out?

         Ma le cose sono design?

         L’anima e la natura delle persone che pensano e realizzano non muore mai, si sposta da loro a ciò che inventano, definendo così gli oggetti. Chi è stato in grado di fare ciò è definibile artista, meglio, genio. Inizialmente solo pochi lo erano, altri avevano perspicacia, molti s’applicavano nello studio e copiavano con criterio ma ancor di più erano quelli che non lo facevano, i poco preparati e gli incompetenti installati ovunque, quelli che copiavano male, infine, la moltitudine di incolpevoli inconsapevoli masse seguaci di traiettorie convenienti a qualcun altro. Era così e continua ad essere così. E forse sempre lo sarà.

         E’ molto semplice: genio è chi è nato genio, non chi lo vuole essere. O lo sei o non lo sei, diverso è volerlo essere o addirittura provare ad esserlo. Chi pensa e produce oggetti, che si sono evoluti da semplici cose in quanto contengono l’anima e la natura di chi li ha pensati, risponde solo a se stesso. A nessun altra logica che quella. Non c’entra il denaro che può scaturire dalla commercializzazione degli stessi, o dalla valenza che può elevare l’autore nella scala sociale, o dal potere che può derivare a chi li detiene in modo esclusivo o monopolistico. Ogni epoca ha avuto i sui geni, ed ogni epoca futura li avrà. Dovrà sempre essere tenuta in considerazione la necessità che quegli illuminati hanno di cercare nuove forme d’arte, d’espressione, di verità onesta rispetto alla loro natura. E rispettarla seguendola con ossequiosa devozione.

         Quindi, gli oggetti sono design?

         Tornando a noi, alla banale quotidianità, di chi e cosa dobbiamo fidarci?

         Forse una basica riflessione può venirci in soccorso: pensare…ai nostri escrementi…si, proprio quelli che facciamo in quel posto…normalmente al mattino.

Invito, e m’invito, a vederli come il frutto ancestrale, il primo ed unico originale prodotto dell’anima e del corpo. Elemento da tenere in considerazione senza mai declinarlo a mero scarto, bensì, il risultato dell’elaborazione della nostra essenza. Perché il genio, uscendo dalla basica riflessione, elabora con la stessa semplicità con cui noi, comuni mortali, ci ritiriamo ad evacuare…in quel posto.

Ad ognuno il proprio livello, nel senso d’attitudine e capacità.

Bisogna imparare a riconoscere ciò che contiene onestà e verità tralasciando l’inutile ed il superfluo; non trattare o farsi trattare come escrementi ma pensare ad essi come l’opera d’arte che contiene la nostra vera essenza. Basta ricordare i 90 barattoli di Piero Manzoni –gli Artist's shit- ed il geniale intuito che contengono...

Quindi.

         Le cose sono design? No.

         Gli oggetti sono design? Alcuni, solo quelli prodotti da geni.

         Quale sarà il design del futuro? Si apriranno due strade: la prima rappresentata dalla tradizione del genio che inventa e produce come sempre nella storia dell’umanità è accaduto. La seconda, quella percorribile da tutti, troverà sviluppo grazie alla capacità di trasformare ciò che già esiste applicandolo, per esempio, ad un uso diverso da quello originale –riciclo, visto come nuova collocazione concettuale- l’unione e commistione di cose diventano nuovi oggetti e forse design. A patto che, senza falsità o strategici opportunismi, le valutiamo applicando onestamente la basica riflessione per non cadere nell’errore, che può divenire tragico, di confondere le cose trasformandosi in orrore.

Errore ed orrore che purtroppo continuano ad influire ogni giorno di più su ciò che importa, o dovrebbe importare, ad ogni essere umano.

Un mondo diverso, vero, sincero, corrispondente.

 

martedì 13 maggio 2014

Again: bellezza (5 febbraio 2014)


 

 

Ci tocca vivere in una società dove ormai è normale far soldi speculando sui soldi -denaro prodotto col denaro-.

Non ci rendiamo più conto del fatto che fare un’attività dalla quale ottenere un prodotto, e forse un reddito, è cosa sana. Usare il denaro in modo speculativamente matematico cercando solamente modalità finanziarie convenienti, senza dubbi, è cosa malata.

Siamo addestrati a pensare che il meglio è la resa di un capitale economico piuttosto che aspirare a qualcosa di originale, funzionale o, addirittura, bello.

E’ chiaro a tutti quanto vale la bellezza oggi, intendo, nel senso del suo significato?

Non è più un canone di riferimento assoluto perché non decide i flussi economici e quindi quelli di potere e controllo. Al di fuori della pura estetica riferita al corpo umano (più precisamente parti di esso: tette, culi, addomi piatti, pelli lisce, cioè: bellezza = giovinezza esteriore = successo), siamo passati da una società basata su sostanza e contenuti ad una fondata sull’effimero. Dov’è attendibile portatore di verità chi solo declama dal proprio pulpito e non chi compie atti concreti, dove il sepolcro imbiancato con fresca calce rappresenta un oracolo a cui ispirarsi, dove l’ipocrisia e la menzogna sono celate dall’ostentazione morale, dove frasi ad effetto + apparenza estetica sono l’unico lasciapassare accettato.

La trasformazione che il senso del bello ha subito è quella relativa al suo significato: non è più importante capire la vera essenza della bellezza, intesa a priori, come qualcosa che avviene all'inizio di un processo conoscitivo, prima dell'esperienza stessa. E’ un concetto difficile ed inafferrabile ai più. Bello è diventato ciò che produce effetti tangibili. Quindi, un oggetto è bello se rende in termini di denaro o potere e non più nel senso di esperienza aprioristica, tutto qui.

         E’ la totale mancanza del senso del ridicolo ad ostacolare la visione corretta: siamo così ammaestrati a pensare ed agire in modo distorto da non domandarci più il significo di ciò che si compie. Non riusciamo a capire se quello che accade attorno a noi e quindi le nostre reazioni siano riconducibili a qualcosa di reale oppure appartengono al ridicolo. Siamo semplicemente attori inconsapevoli d’una drammatica farsa.

         Invito, non tanto per fare una citazione alta, alla rilettura delle tredici lettere di Paolo di Tarso – si trovano nell’antico Testamento – per trovare spunti interessanti, l’aspetto religioso o dottrinale qui non c’entra. Personalmente mi sono rimasti incollati alcuni passaggi che trovo significanti e necessari per intraprendere una riflessione che possa portare a delle risposte.

Tutto è puro per i puri…chi pensa di essere qualcosa mentre non è nulla, inganna se stesso

         La purezza è un aspetto cruciale per comprendere l’esperienza della bellezza. Da quella si parte per vivere integralmente il sentimento del bello. Che deve essere puro, ma anche disinteressato, universale, necessario. Un passaggio che dobbiamo sforzarci di vivere rispetto a tutto trovando e provando la nostra sensibilità rispetto al tutto stesso. Cioè il bello, o senso estetico, non deriva più semplicemente da quel tutto con il quale ci rapportiamo ma da dal rapporto che noi creiamo con esso. Come in una vera e propria relazione. Quasi d’amore. Perché la bellezza provoca i sensi dando piacevolezza e stimola il gusto a riconoscerla come elemento appartenente alla nostra natura. E solo lì, nella nostra natura, possiamo trovare l’inesauribile spinta che ci serve per sopravvivere.

Educhiamoci ed educhiamo, soprattutto i nostri figli, alla ricerca del bello cercando una normalità senza norma. Osserviamo, contempliamo, cerchiamo di vivere il più possibile fra e con oggetti belli, proviamo ad affinare il nostro gusto, accettiamo ed accogliamo il fatto di dover ogni giorno assumere una quantità di bellezza. E’ una necessità senza scelta, l’unica capace di distoglierci dalla decadenza che ci sta travolgendo lasciandoci solo l’illusione d’una attesa, quella d’un oblio sanatorio.

La bellezza è l’unica possibilità che abbiamo di far tornare luce sulla nostra rabbuiata natura, l’unica concreta possibilità di ripartenza.

 

lunedì 12 maggio 2014

Again: pulsare (4 febbraio 2014)


 

 

Molto accade senza che ce ne accorgiamo, il controllo delle cose sfugge perché siamo distratti, chi ha forza è forse solo più attento. Attento a quello che serve per capire tutto prima, almeno, prima degli altri.

C’è chi ha preso il controllo e come il più abile conduttore gestisce le azioni le parole e i pensieri. Confonde con ogni mezzo possibile, mascherando e mimetizzando, agendo sull’inconscio delle coscienze.

Quando si convive con tante situazioni in modo leggero, si è più facilmente portati ad accogliere tutto quello che viene proposto, accettando la teoria che si tratti di una sorta di dimensione superiore. Si vuol credere a ciò che pare ricondurre alla verità, a ciò che pare ricondurre ad una apparente tranquillità, a ciò che pare ricondurre all’ovvio.

Siamo nell’epoca del controllo dei pensieri e già qualcuno ci aveva provato, la storia parla chiaro, ma ogni volta è come se tutto ricominciasse dall’inizio, e non si parla di violente azioni destabilizzanti ma di subdole operazioni sotterranee, forze persuasive che vanno ad attecchire su menti vergini immacolate dove nessuno ha ancora posato un’ideologia. Milioni di campi vengono violati per la prima volta da un aratro malato che traccia un solco indelebile, una profonda traccia che vuole indurre chi non ha ancora deciso, imponendo una direzione da seguire.

Tutto è stato contaminato e la purezza, e la verginità, perse.

Molto accade senza che ce ne accorgiamo, il controllo delle cose sfugge, perché siamo violati prima di potercene rendere conto. Siamo controllati dalle ideologie, entità senza corpo ma con grande sostanza, e continuamente le subiamo. E chi tenta disperate azioni quantomeno per difendersi viene sconfitto, annientato, cancellato.

Il potere di quelle idee vince ogni reazione, supera ogni ostacolo, distrugge l’oppositore. Perché è subdolo e si fortifica sapendo immischiarsi alle cose normali della vita sotto bella forma in una dimensione che attrae chiunque. Sa placare ogni tentativo con dolcezza così, come se serve, sa ben usare la sua forza. Infiltrandosi in ciò che piace, in ciò che da piacere, dalla bellezza della natura a quella dell’arte, negli istinti dell’uomo facendoci compiacere di noi stessi concedendoci momenti esaltanti o di quiete o di grande divertimento. Portando all’indifferenza regalandoci immagini finte d’una realtà grandiosa che incanta, e noi, ne sappiamo far solo argomento di dialogo impegnato per sentirci più sicuri, credendo d’essere più forti, sperando così d’essere accettati.

 

Tutto continua ad accadere senza che ce ne accorgiamo perché siamo quello che hanno voluto che fossimo, oramai privi di tutto, e non riusciamo nemmeno più ad ascoltare ciò che potrebbe farci sopravvivere: il nostro vitale pulsare.

venerdì 9 maggio 2014

Again: abusare (3 febbraio 2014)


 

 

Ho sempre pensato all’abuso come ad un atto bestiale.

E lo intendevo per qualsiasi cosa: degli altri, delle cose, dei sentimenti.

Poi ho scoperto la Wodka e mi sono ricreduta. Anche su certe droghe, dopo averle provate, ho cambiato idea. Ma questo è un altro discorso.

Lo so, posso sembrare matta, dico una cosa e poi subito l’esatto contrario, ma meglio spiegare con calma, tanto per non essere equivocata.

L’abuso in se è aberrante: se penso a quelli che lo applicano sulle donne, sui bambini, sulle persone indifese. Quando è il frutto del puro istinto, dove la razionalità ed il controllo sono ignorati, l’atrocità di un gesto solo frutto della reazione è sinonimo di mera violenza.

Ma con l’alcool è diverso.

Un tempo guardavo con sospetto quelli a cui l’alito puzzava d’un fastidioso retrogusto alcolico, m’hanno sempre dato inquietudine, come fossero persone di cui non fidarsi dalle quali stare alla larga. In parte è ancora così ma con la Wodka è diverso: perché non lascia tracce nell’alito, è dolce e prepotente nel distorcerti i pensieri negativi trasformando un momento qualunque in qualcosa di accettabile se non di piacevole, ed assunta in una misura non troppo esagerata, non lascia effetti postumi troppo significativi. Per questo bevo, più volte al giorno, oramai mi ci sono abituata a tal punto da non poterne fare a meno. E poi, forse, per via del mio DNA mezzo irlandese reggo piuttosto bene e mai mi sono spinta dentro al baratro del rigurgito, nauseabonda conseguenza della troppa assunzione. Nessuno sa che bevo, mai nemmeno un sospetto m’ha sfiorata, nemmeno mio marito se ne è accorto. O forse non mettendoci attenzione mai s’è posto il problema di accorgersene. Ma su mio marito ho molto altro da dire e non voglio ora sacrificando del tempo ad un argomento che mi rende felice.

Davvero.

Per quanto riguarda la droga ho poco da dire.

Trovo lo spinello d’erba una cosa talmente scontata da essere superflua. Non sopporto chi fuma erba, appartiene ad un’altra generazione, quegli sfigati pseudo sinistrorsi che si nascondono nel buio d’un vicolo desolato per rullare una cartina e poi, dopo averla accesa, passarsela in cerchio. Una per tutti, una sorta di condivisione che richiama il legame, un rito che sinceramente stento a considerare.

Io preferisco farmi un’iniezione di eroina una volta al mese.

Te lo ricordi quel film…oh Dio come s’intitola…con quell’attore mezzo pelato…come si chiama?...comunque, sicuramente l’avrai visto, venni folgorata dall’immagine del protagonista che usava la droga in quel modo, decisi di provare.

E mi si aprì un mondo sconosciuto fatto di sensazioni, piacere, assoluta rilassatezza di corpo e mente. E’ come vivere il più folgorante orgasmo, il corpo che vibra, i sensi spalancati e attenti come mai prima in vita tua, ti senti tridimensionale, realmente viva.

 

Ora però devo andare, ho un mucchio di cose da fare, e mi accontento di buttare giù un drink.

lunedì 5 maggio 2014

Again: a proposito di conoscenza (29 novembre 2013)


 

 
   A proposito di conoscenza. 

   Perché si studia la storia?
   Anzi, perché si dovrebbe studiare la storia?
   Ricordo questa domanda postaci dal professore di storia un giorno a lezione, in seconda media, varie le risposte. 

   Per imparare dagli sbagli commessi nel passato […] per capire chi siamo e da dove veniamo […] per conoscere la cronologia degli eventi che hanno più influito sull’umanità […] 

   A quell’epoca pensai che un buon motivo per il quale eravamo obbligati a farlo fosse la necessità di essere promossi a fine dell’anno scolastico.
   Ma, giuro, me ne restai zitto con quella mia convinzione.
   Ero giovane, sicuramente ingenuo, ma pure non inquinato da tante cose che poi sono stato costretto a vedere e vivere. Quello mi pareva un buon motivo, oggi ho capito che c’era pure dell’altro, anche se ascoltai ciò che disse il professore. 

   La storia insegna, attraverso l’osservazione dei fatti e delle esperienze passate, ad avere un’opinione. 

   Così rispose, tutti lo guardammo senza capire molto, in fin dei conti ragazzini di undici anni non hanno molte opinioni se non quelle copiate dagli adulti in genere. Dai genitori in particolare. 

   Personalmente ho sempre trovato il passato più interessante del futuro. Solo per il fatto che parlandone si fa riferimento a qualcosa di vero, d’accaduto, contrariamente a ciò che si può considerare al massimo un’ipotesi. La storia del passato è il racconto della vita delle persone. Persone vere protagoniste di storie vere. Un crocevia necessario per avere la certezza d’un punto iniziale da cui partire verso un futuro che possa contenere le nostre convinzioni, forse, i nostri sogni.
   Ben inteso: mi riferisco alle vere storie, quelle di cui siamo certi, non alle ricostruzioni di parte. 

   Mi sono perciò sempre posto tante domande studiando la storia dell’umanità ma tre sono i fatti su cui ho passato del tempo a riflettere. 

   Il primo fatto.
   I morti causati delle guerre.
   Una contabilità raccapricciante riportata nei libri - a scuola - in modo asettico, come puro fatto inevitabile, sottolineando invece come essenziali date, cause ed effetti dei conflitti. E questo bastava per evitarci un dubbio o perdere tempo a riflettere.
   Forse un modo che fin da subito c’ha istruito a non pensare.
   Prendiamo a caso quattro vicende storiche ben note.
   Guerra dei trent’anni: una serie di eventi bellici avvenuti in Europa nella prima metà del 1600. Circa 4.000.000 i morti.
   Rivoluzione francese e guerre napoleoniche: dalla fine del 1700 al 1815 circa. 5.000.000 di morti.
   Grande guerra: dal 1914 al 1918. 26.000.000 di morti.
   Seconda guerra mondiale: dal 1939 al 1945. Quasi 54.000.000 di morti. 

   Il secondo fatto.
   Il sistema feudale.
   Nella prima metà del 1300 l’uomo (almeno nel continente europeo) si diede un ordine preciso quanto definitivo di società.
  C’era chi comandava e stava in alto nella scala sociale – un governante, quasi sempre un re o un nobile di alto rango, ma anche un’alta carica religiosa – poi sotto categorie a discendere d’importanza - vassalli, valvassori, valvassini – poi c’erano i contadini liberi ed infine, sotto a tutti, i servi della gleba.
   Fu questo il primo grande sistema di gestione sociale, passato attraverso – e frutto di - tante esperienze precedenti che tutt’oggi, con forme e modalità apparentemente differenti, resiste. 

   Il terzo fatto.
  Il 6 agosto 1945, con la bomba atomica esplosa su Hiroshima, gli equilibri dell’umanità cambiarono definitivamente. Ma non rispetto all’ordine sociale – in senso assoluto - ma solo rispetto al modo di farlo valere ed accettare. 

   La storia è importante.
   Importante è pure non farsi ingannare da essa.
   Nel senso che si possono conoscere date, nomi, situazioni…ma non bisogna mai dimenticare i morti, i tanti morti serviti a creare un ordine necessario a controllare chi è restato in vita, e pure i modi o le tecniche utilizzate per farlo. Tutte le scelte hanno una conseguenza, pure un prezzo da pagare, ma anche un limite insuperabile da rispettare pena l’annientamento globale. Sono i parametri da controllare in una guerra: quindi, non conta quanto morti servono, bastano quelli necessari allo scopo. L’ordine sociale è garantito dalle gerarchie: chi sta sopra (pochi) comanda chi sta sotto (tanti). Non conta quali mezzi vengono usati per le guerre e la gestione dell’ordine sociale, basta soltanto siano efficaci e possibilmente gestibili, onde evitare una ritorsione degli stessi contro a chi li usa.
   Importante è perciò comprendere la storia nella sua vera essenza e non solo per come ci viene raccontata per poterne percepire, si spera, il significato. 

   Faccio un esempio, che so possa sembrare paradossale, ma credo possa farmi meglio comprendere. Molti conoscono il Mein Kampf di Adolf Hitler. E’ il proclama politico della follia di un uomo, diventata collettiva con il nazismo, censurato dopo la chiusura tragica di quel periodo storico.
   La maggior parte delle persone, pur non conoscendo quel testo perché mai l'ha letto, tende ad indignarsi appena sentito nominare.
   Eppure milioni sono le copie vendute, perché quindi? Quel’è il senso profondo che quel libro possiede?
   Giustificare pensieri e azioni di qualcuno convincendosi della necessità d’una assoluzione sui fatti per arrivare in sostanza a darsi un perché rispetto a qualcosa che razionalmente un perché non ce l’ha. E’ questa l’istintivo pensiero, quasi globalmente accettato, che può dare all’uomo medio un senso di spiegazione dell’argomento.
   Se si scava più in profondità invece c’è altro: quel libro è la misura esatta di ciò che ha sempre subdolamente guidato ogni atto umano, ovvero, la necessità del potere. E nello specifico la forza – soprattutto economica - che si possiede mascherandosi dietro ad una facciata mediante un documento storico che nessuno dovrà mai dimenticare.
   Per chi l’ha scritto e forse subito evidente, per chi lo detiene oggi un po’ meno.
  Forse non tutti sanno che il Mein Kampf di Adolf Hitler è attualmente in commercio nella gran parte del mondo, negli Stati Uniti il libro si può acquistare liberamente nelle librerie e via internet. Il governo americano s’impossessò infatti dei diritti d’autore già nel 1941 in seguito all’entrata degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale come parte del With the Enemy Act e che nel 1979 la Houghton Mifflin acquistò i diritti dal governo stesso. Ed ogni anno ne sono vendute più di 15.000 copie. Barenes & Noble lo vende a 13$ e rotti...
   Che significa questo?
   Business is business.
   A prescindere da tutto e da tutti. Sopra tutto e tutti.
   L’ottenimento del potere – per esempio attraverso la gestione e vendita d’un libro - rappresenta una necessità insita nella natura umano. Ieri e l’altro ieri con guerre devastanti, oggi con guerre che hanno occupato territori diversi.
   Tanto per essere chiari.
   Non ci fu solo questo durante il periodo della dittatura nazista. In tanti altri hanno fatto business approfittando cinicamente di quell’opportunità. Per esempio: le filiali tedesche della KODAK durante la Seconda Guerra Mondiale utilizzavano schiavi provenienti dai campi di concentramento. Il famoso HUGO BOSS nel 1930 disegnò e produsse le uniformi naziste (Gioventù hitleriana, Sturmtruppen, SS). La VOLKSWAGEN, Ferdinand Porsche il suo ideatore, fu l’uomo scelto da Hitler per progettare e costruire la “vettura del popolo” – il maggiolino -. La BAYER. Azienda farmaceutica nata nel dopoguerra era una costola dell’originaria IG Farben, società diventata economicamente potente durante il nazismo perché produttrice del Zyklon B, il gas usato nei campi di sterminio…oggi invece ricordata come la più importante venditrice dell’aspirina. E ancora: la SIMENS che utilizzò enormi quantità di schiavi in generale durante quel periodo, in particolare, con essi ci costruì le camere a gas nei campi di sterminio. La COCA-COLA che giocò opportunisticamente sui due fronti: sostenendo le truppe alleate – americane in primis - ma continuando a produrre e vendere soda alla Germania nazista. E quando nel 1941, in Germania le materie prime – sciroppo necessario per fare la Coca-Cola – scarseggiavano s’inventò una nuova bevanda specifica per loro chiamata Fanta. Questa bibita è stato la bevanda ufficiale della Germania nazista. HENRY FORD fu forse il più celebre industriale antisemita sostenitore di Hitler. E questo basta…
   La STANDARD OIL (oggi divenuta ExxonMobil, Chevron e BP) fu la principale fornitrice di combustibili per la Luftwaffe. CHASE BANK, famoso istituto di credito americano, si schierò apertamente dalla parte dei nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale congelando, per esempio, i conti europea dei suoi clienti ebrei. Infine la IBM che costruì macchine per i nazisti… 

    Questi fatti come questi sono parte della storia da conoscere?
    Si, certamente.
    Fatti come questi sono in grado di formare un’opinione in quanto storia?
    Si, a patto che li si consideri non solo per quello che raccontano o che c’è stato raccontato ma per quello che rappresentano. E, come in questo caso, l’essere un puro strumento di rivendicazione del potere e contestualmente una giustificazione dei modi usati ad esprimerlo.