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lunedì 21 settembre 2015

post 175: estratto cap.5 (Orso - edito da Narcissus 2013)



Orso spinse la carrozzella lungo il corridoio. Aristide lo guidava indicando con il dito la direzione da seguire. Fecero un paio di svolte ed infine giunsero al bagno. Entrarono. Si trovarono di fronte alla tazza, Orso imbarazzato ma deciso ad aiutare quella persona in difficoltà, attese istruzioni. Aristide, vedendolo così, se ne uscì con una domanda spiazzante.

“Ma tu, Orso, sei finocchio?”

Orso sbandò perché sorpreso dall’affermazione, balbettò qualcosa, ma Aristide continuò insistente.

“Finocchio, intendo, sei frocio, gay, ricchione, busone? Sai com’è, vorrei evitare di trovarmi a calzoni calati in balia di un maschio del quale non conosco le inclinazioni sessuali, a cui forse potrebbero interessare certe mie parti…”

Orso rise imbarazzato ma cominciò in quel momento a capire la natura ironica dell’uomo. Confermò la sua preferenza per le donne. Aristide così si quietò mentre Orso proseguiva a non sapere cosa fare. Aristide lo guardò e con tono definitivo lo invitò ad appoggiarlo sulla tazza “…altrimenti rischio di farla qua…”.
Orso sollevò di peso l’uomo e con grande sforzo fisico lo fece accomodare sul sanitario, con grande fatica gli abbassò i calzoni e poi, non sapendo più che fare, restò lì impalato quasi sembrasse interessato a quello spettacolo. Aristide gli lanciò un’occhiata inquisitoria.

“Sicuro che nemmeno da piccolo hai mai avuto tentazioni sugli uomini?”

“No Aristide, glielo garantisco, solo che questa situazione per me è…inusuale”

Aristide si aprì in un sorriso divertito, cambiò tono.

“Va bene, mi hai convinto, giovane amico. Ora posso fare da solo, puoi uscire, grazie”.

Dopo qualche minuto i due tornarono nella sala lettura. Orso spingeva la carrozzella lungo il corridoio, Aristide sembrava essere più rilassato.

“Scusa per prima se ho giocato un po’ - Orso non capì a cosa si riferisse - la storia della tua omosessualità intendo, mi ha divertito prenderti in giro, purtroppo qua nessuno riesce più a divertirsi, ma io lo voglio ancora, anche solo a parole”

“E fa bene, l’importante è tenere sempre alto lo spirito”

“Già, almeno quello sta in alto. Sai da quanto tempo non sto più con una donna? quasi dodici anni. Lui - indicandosi le parti basse - un bel giorno è andato in pensione senza avvisarmi, ha deciso che bastava quello che aveva fatto e così si è addormentato. Sai com’è vivere con una salsiccia di carne moscia nelle mutande?”

“E’ la natura, prima o poi capita a tutti e poi lei ha l’amore e l’affetto di sua moglie. Rosa è una bella persona, gentile, educata, discreta - Aristide rise - che c’è da ridere?”

“Tu fumi?”

“Si, perché?”

Aristide fece un cenno con la testa come ad indicare una nuova direzione da seguire. Orso eseguì senza fiatare. Lasciarono il corridoio per immettersi in uno più stretto che dava, alla fine, sul giardino interno dell’istituto. Uscirono dalla porta finestra, fuori più che un giardino c’era uno spiazzo pavimentato, erbacce che crescevano sui bordi, alcuni vasi di plastica vuoti a far da tentativo di decoro. Orso estrasse il suo pacchetto, ne offrì una all’uomo prima di prendersene una, le accese e subito alla prima boccata Aristide sembrò rilassarsi.

“Se tu l’avessi conosciuta tempo fa, era una donna diversa, una furia - Orso non capì al volo - pretendeva tre rapporti sessuali al giorno, completi! - Orso sorrise impressionato - oggi fa tanto la bigotta e si scandalizza per ogni cosa, soprattutto si vergogna di me perché non so nemmeno andare al bagno da solo - Orso smise di sorridere, Aristide diventò serio - le donne sono così, appena non puoi più essere il maschio che le protegge, che si occupata dei loro problemi, che ha il coraggio di affrontare ogni difficoltà anche per loro, che paga ogni necessità, iniziano a trattarti in modo diverso. Non ti abbandonano, ma sono costantemente annoiate, ti fanno sentire come se fossi per loro un peso…”

“Dai Aristide, forza, pensiamo ad altro. Non si rovini l’umore con questi brutti pensieri, è meglio rientrare ora”.

  Aristide abbassò il capo e poi annuì. Orso prese i due mozziconi e li mise in tasca, spinse la carrozzella verso l’interno. Percorsero all’inverso i corridoi fino a ritornare alla sala lettura. Lì nulla era cambiato, Rosa ed Elisa sempre impegnate nel loro chiacchiericcio pettegolo, il Colonnello che dormiva russando con il capo totalmente riverso sullo schienale della poltrona. Proprio in quel momento passò in parte a loro una donna con il camice bianco che portava un grande thermos. Aristide fece cenno ad Orso di accelerare l’andatura, lui adorava il caffè e non lo sopportava proprio quando si raffreddava, Orso allungò il passo.


lunedì 14 settembre 2015

post 174: edera (inedito 2015)



Una buona parte delle persone che ho conosciuto appaiono sempre nella stessa forma, ferme in posizione comoda, a prescindere da quello che accade attorno. Indifferenti a ciò che sentono ed insensibili a quello che desiderano. Sono come gli arbusti che sopravvivono immobili sperando che mai alcuna sventura li possa anche solo sfiorare. Tutto fondato su di un’unica certezza: l’apparente solidità e sicurezza del terreno in cui sono conficcati. E quello basta: sanno cosa è il meglio ma preferiscono un peggio garantito di fronte all’incertezza del doversi sforzare provando a vivere in un terreno migliore.
L’altra parte di persone che ho conosciuto si muove apparentemente in totale autonomia, magari con la presuntuosa necessità d’ostentarlo, in realtà hanno sempre bisogno di un sole a cui rivolgersi per succhiare l’energia senza la quale muoiono. Come girasoli. Sono quelli che ti possono anche ingannare ma che prima o poi trovi fermi al buio, perché quello arriva per tutti, immobili senza più capacità d’essere. Rassegnati all’idea che solo l’attesa d’un nuovo sole sia la soluzione. Falsi ipocriti che si mascherano dietro ad un’apparenza rassicurante e conosciuta, nel profondo insoddisfatti adattati a vivere di sola luce riflessa, capaci di gioire solo della mediocrità perché incapaci d’essere liberi.
Poi ci sono quelli come me, edera, che senza sole e senza appigli provano sempre e comunque a muoversi. Per rispettare la loro natura, alla costante ricerca della vita, per niente impauriti dalle difficoltà che dovranno affrontare.
Perché l’edera, più la tagli e più tenti di ridurla, più si fortifica e cresce.
In una continua rinascita che inizia sempre d’autunno, con il buio e il freddo, perché siamo certi che quello che conta non lo abbiamo vissuto. Alla continua ricerca di se stessi, attraverso la durezza della prova, come un necessario lascia passare per capire chi veramente siamo. E fiduciosi accogliamo la vita. Sempre e comunque.

Edera.

Solo questo posso essere.

martedì 8 settembre 2015

post 173: l’amore viene e va (inedito 2015)



Sembra impossibile pensare che certi rapporti finiscano.
Come un cataclisma che nel sonno ti coglie senza avviso e distrugge tutto, una forza inarrestabile che ribalta le certezze ed insinua dubbi su tutto quello che è stato, e ti trovi steso a terra quasi incapace di respirare.
Ma così accade.
La delusione ed il disappunto t’inghiottono, la vita sembra inutile come una farsa mal scritta, ti senti incapace d’una minima reazione quanto meno un gesto che sia degno per te stesso. E resti lì steso, immobile, passivo.
E’ terribile; una sensazione che nemmeno al tuo peggiore nemico augureresti, ma la devi vivere fino in fondo prima di risollevarti, e dopo potrai risorgere.
Perché lo spirito di sopravvivenza alla fine prende naturalmente il sopravvento. Come una febbre che deve fare il suo corso ma devi soffrire, sudare, inerme solo attendendo che passi.
E lì prende forma il miracolo.
Non te ne accorgi ed inizi ad accantonare le scuse e gli alibi.
Verso di te, verso la persona che ami, che credevi necessaria alla tua vita. E lì comincia il salto nella nuova dimensione: quella della realtà. Ma prima di ripartire c’è un altro duro tratto da percorrere.
Perché quando ami, o credi di sentirti in quello stato fai di tutto per continuare a cercare conferme anche dalle piccole sfaccettature, sei disposto ad accettare tutto, incluse le peggiori nefandezze che il cuore impone d’accettare anche quando non comprende. Perché dietro dev’esserci un motivo, una scusa, qualcosa di plausibile a cui aggrapparsi. E anche quando tutto sembra dirti il contrario resisti fino ad accettare l’inaccettabile. Diventi penoso. Ma procedi, inesorabile, perché una soluzione da qualche parte si deve trovare e la vuoi trovare. Sentendoti responsabile, una colpa che comincia a condizionare ogni azione ed ogni pensiero, ti trasformi in chi non sei per costruire una giustificazione in funzione dell’altro. Per salvare o dare una possibilità a ciò che era intoccabile. All’amore che hai sempre creduto di vivere.
Ma non è più amore.
Sei già nel tempo e nello spazio del non amore: quel sentimento in cui avevi creduto, nel quale avevi riversato ogni energia, era solo una costruzione del tuo desiderio d’essere amato. E nulla più. E’ come un pugno dritto nello stomaco, la realtà che si palesa inevitabile, e ti manca il fiato. Non riesci nemmeno a piangere, ad urlare, disperarti con qualcuno che voglia ascoltarti sperando ti possa consolare. Stai già oltre, e non te ne accorgi, disinnamorato anzi disintossicato. E ogni cosa o pensiero o azione che la persona su cui avevi puntato fa diventa insufficiente, anche le sue migliori doti e rappresentazioni diventano irrilevanti, per trasformarsi infine in un fastidio che vuoi solo evitare.
Sei quasi salvo.

L’amore va e viene: quando arriva sembra facile toccare il cielo con in un dito e ti senti invincibile, quando se ne va lotti per non lasciare quella sensazione tanto grande. E’ duro d’accettare ma infine s’impara ad accogliere ciò che la vita propone. Soffrendo, o forse così è semplice rappresentare quello che si prova, per poi volgere lo sguardo altrove alla ricerca d’aria nuova e fresca da respirare quando s’è saturi di tutta quella pesantezza.
Infine la si trova.
E tutto quello che si è vissuto si riduce entro i contorni di un romanzo, triste forse drammatico, certamente una storia che però non spaventa più perché ne conosci il finale.


Essere se stessi, finalmente, e smettere di mentire per nascondersi dalle più profonde e nascoste paure.

sabato 5 settembre 2015

post 172: incipit (AD8 ed. Narcissus 2013)



Essere genitori adottivi è un’esperienza assoluta destinata a pochi.
Un bambino adottato è come un tossico senza colpe o volontà d’essersi trovato in quel tunnel e dal quale ha poche possibilità d’uscire. E’ come “in quelli che si sono fatti d’acido” dove all’improvviso, soprattutto in momenti apparentemente tranquilli e senza un perché che la mente possa comprendere, il diavolo che silente in loro alberga spinge violentemente per uscire al di fuori ed esprimersi.
E ci riesce.
Essere genitori adottivi significa rendersi conto di questo ed essere pronti ad affrontarlo nel miglior modo possibile. Con la più grande capacità d’improvvisazione possibile. Tutto qui.
Fondamentalmente serve trovare la forza per resistere a quel diavolo tentando di domarlo, imparando a conoscerlo, sopportarlo nell’inevitabile stretta convivenza. E nel frattempo godersi tutta la parte bella che ogni bambino adottato esprime ancor più d’ogni altro essere vivente, in una forma e con la sostanza che riempiono all’infinito il cuore, rigenerandoti ogni volta nella forza e nella determinazione in attesa della lotta successiva.
E’ questo, un lieve equilibrio, il filo sottile dal quale è facile precipitare: il baratro più profondo da un lato, le vette assolute dall’altro.


Solo chi sa vivere come un funambolo può essere in grado di sopportarlo.

venerdì 4 settembre 2015

post 171: meraviglia





Ricordo una parte della mia vita in cui ciò che più mi rendeva felice era meravigliarmi. Delle cose che vivevo, di ciò che vedevo, quello che accadeva attorno a me, del non sapere nulla.
Poi accadde qualcosa.
Cominciai a capire alcuni meccanismi e la meraviglia si trasformò in dubbio perché sentii di non conoscere abbastanza. Quindi far mie tutte le spiegazioni possibili fu l’unica strada da seguire. E la percorsi applicandomi e studiando per voler limitare le lacune cercando di riempire tutti i vuoti che da solo non potevo colmare. Dallo scarabocchio alla scrittura, sillabare le lettere per poi leggere parole, imparare i numeri e contare, la matematica, la musica, l’arte, la scienza. Sempre più informazioni, sempre più nozioni, sempre più certezza.
Poi d’improvviso mi fermai.
La sicurezza data dalla conoscenza aveva oramai definitivamente estromesso la tanto amata meraviglia; quando lo percepii fu come togliersi un velo dagli occhi e finalmente vedere nitidamente. Mi resi conto che quel mondo non mi piaceva, fondato solamente sul sapere funzionale, utilizzato spesso o sempre senza le migliori intenzioni. Una società che portava il sapere sull’altare più alto in nome della sconfitta della paura e dell’ignoranza. Percepire che inconsciamente l’avevo trattato come mito assoluto per paura di essere vulnerabile, attaccabile, forse ingenuo tanto da sembrare stolto. Provai un grande fastidio. E pure il pensare seriamente che non avrei potuto farne a meno mi fece rabbrividire.
Quella visione improvvisa mi diede coscienza: la conoscenza acquisita, da conquistare o da comprendere, non sarebbe più stato l’unico parametro a cui riferirmi. Per la prima volta capii di essere un uomo che avrebbe dovuto lottare per essere fine a se stesso e vivere il sapere come mero strumento per ottenerlo.
Niente altro e niente di più.
Non poter più accettare d’asservirsi in nome di un falso mito pur vivendo in un servosistema globale, avendo certezza che altra fosse la fonte da cui abbeverarsi, sentendo la costante necessità di meravigliarsi come esigenza fondamentale.

E ora.
Vivere completamente quella sensazione, facendomi scuotere anche solo dal suo sfiorarmi, istanti di pura estasi che vorrei non avessero fine.


giovedì 3 settembre 2015

post 170: niente più scuse (inedito 2015)





“La situazione in cui mi trovavo, professore, era veramente orribile. Pensavo d’avere tutto, di essere nella condizione d’una felicità ovvia, invece stavo male e soprattutto non ne capivo i motivi. Non vedevo la realtà e nemmeno il suo aiuto m’ha mai giovato. Mi sentivo schiacciato anche se continuavo a ripetermi che tutto andava bene, era una cosa insopportabile che avevo accettato come irreversibile, poi finalmente e senza preavviso ho preso consapevolezza e tutto s’è schiarito. Senza saperne il perché, ma è successo, finalmente respiro aria fresca”.

Lo guardai credo dimostrando soddisfazione per quelle parole che udivo e percepivo vere per un senso di profondità visto il tono e la postura usati nel pronunciarle.

“Ho cambiato atteggiamento. Come se fisicamente mi fossi spostato cambiando l’angolazione del mio punto d’osservazione.

Ho smesso di giustificare.

Ogni volta che nella vita qualcosa non andava come desideravo istintivamente giustificavo le altre persone coinvolte e quindi lo facevo con me stesso. Tante volte mi è successo, nel lavoro, nelle amicizie, nei rapporti d’amore. Ero pronto ad ascoltare, ad accogliere, a comprendere. Anche l’improponibile. Credendo d’essere io in difetto, comunque disponibile a cambiare per gli altri, insensibile a me stesso considerando sempre più la possibilità d’essere fallato da qualche parte. Il giusto stava altrove e soprattutto in ciò che mi sentivo raccontare. E pensavo fosse normale così, l’unica strada da seguire, quella utile e corretta. Ma tutto non si risolveva, anzi, s’intricava ancor di più.

Ho cominciato a non accettare più le scuse: e subito situazioni e persone a loro legate mi sono sembrate piccole ed insignificanti. E di conseguenza non mi sono più giustificato con me stesso e ciò che ho visto davanti a me è stata solo la verità. Quel senso d’inadeguatezza, o senso di colpa, ha cominciato a dissolversi”.

Evidentemente la mia espressione lo convinse a procedere senza più incertezza, non che ne avesse dimostrata, ma forse per pudore o paura d’essere preso per sciocco e presuntuoso l’avrebbe potuto fermare.

“Oggi molte di quelle cose dolenti mi fanno sorridere: le persone che si nascondono dietro ad un dito, o meglio, quelle che per mascherare la loro pochezza o la loro malafede cercano riparo dietro ad una banalità appena plausibile. Le persone che non sanno amare o impongo il loro modo di farlo, le persone che cercano solo convenienza, le persone maligne, le persone che si nutrono della sincerità altrui, le persone ipocrite, le persone inconsapevolmente sciocche e consapevolmente rassegnate, le persone che continuano a restare ferme ai loro dodici anni anche se ne hanno quaranta.
E’ diventata fastidiosa epidermicamente la vicinanza a persone bloccate, che non vogliono evolversi, che continuano a ripetere come un mantra ho paura, ho paura, ho paura.
E’stato come mettere per la prima volta gli occhiali da vista dopo anni di negazione -a me stesso- riguardo l’esigenza di usarli e capire che con quelli inforcati, cazzo, è come vedere la tv in alta definizione e pure i dettagli si colgono benissimo perché li vedi chiari e a tutto schermo! Eppure fino a poco prima ero soddisfatto anche da un tutto globalmente sfuocato che mi sembrava anche poco convincente”.

Si fermò come attendendo una mia replica. Non lo volli interrompere sentivo che c’era altro.
L’uomo sorrise, mi parve veramente sereno, fece un respiro poi si voltò verso la finestra e lo vidi ispirarsi da quello che vedeva fuori. Parlò guardando attraverso il vetro.

“Vede professore, la fuori c’è la vita, ma c’è pure la morte. La passione e la tragedia, la verità e la finzione, la gioia ed il dolore. Io non ho più paura, anzi, ho solo voglia di vivere tutto realmente. E chi mi accompagnerà dovrà meritarsi il posto accanto a me come io quello al suo fianco, niente più scuse, il tempo perso è solo ragione d’inutile sofferenza. Ogni giorno mi ripeto: chi mi ama veramente abbia il coraggio di seguirmi com’è. Ammettendosi e accettandosi, vizi e virtù, entusiasta di vivere da adulto la vita magari insieme a qualcuno”.

Fece una pausa, si voltò verso di me, tornò serio in volto.

“Era solo una grande paura a bloccarmi, quella d’ammettere che nella vita si cresce e si diventa adulti, forse quei cordoni ombelicali che lei mi ha citato tante volte e che mai ho pensato di tagliare.
Mi sento pronto a combattere consapevolmente la sensazione che non ti vuole far allontanare dal mondo facile e dorato della fanciullezza. Il mio tempo è venuto, i cordoni li ho tagliati, devo sgranchire questo gambe rattrappite e fare i primi passi per poi imparare a camminare e forse un giorno essere pronto per una corsa”.

L’espressione seria divenne un sorriso. Mi guardò fisso negli occhi.

“Ho capito di essere finalmente adulto, maturo forse come un frutto, di certo non più un bambino che quando è insoddisfatto sa solo diventare lagnoso.
Tutto è molto più difficile ma, sinceramente, sono impaziente d’affrontarlo.
Niente più scuse.

La direzione ora è certa”.