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mercoledì 25 dicembre 2013

         Qualcuno propose una partita a Monopoli, ci trovammo seduti attorno al tavolo a fare contrattazioni nel giro di una decina di minuti, io fui messo ad occuparmi pure della banca.
         Succede sempre così: se per un certo periodo ti occupi di una cosa, anche se la tua professione è un’altra, da molti verrai per sempre identificato con quel lavoro. Ed io, nella fattispecie, per un periodo professionale e per necessità collaborai con un istituto di credito. Per questo tutt’oggi vengo identificato da molti con quel mondo. Non che la cosa mi turbi anche se mi da un po’ fastidio; io faccio finta di niente anche se ogni volta che capita per me diventa inevitabile ricordare ciò che ho visto, conosciuto, imparato, sfiorando quel mondo che di certo non mi ha lasciato indifferente. Per come funziona e per quello che rappresenta ma, soprattutto, per ciò che provoca. L’arroganza di chi ha potere perché sta in una banca è clamorosa, moltitudini di stipendiati che solamente seguono supinamente direttive imposte dall’alto. Fanno rabbrividire per come si fanno manipolare ed usare solo per garantirsi il loro posto di lavoro. Ed infine l’orrido: l’irrilevanza di ogni aspetto etico, trasparenza e onestà nei rapporti. Le banche sono sistemi al limite, anzi, oltre il limite della legalità. Dico questo sapendo ciò che dico…fra non molto tempo, quando molti clienti ridotti alla disperazione cominceranno a controllare con attenzione i loro contratti di mutuo, di conto corrente, di leasing, eccetera eccetera, ci si renderà conto di quante cose anomale sono accadute e soprattutto sono state fatte pagare in contraddizione alla Legge…alcune parole da non scordarsi mai: tasso applicato, tasso promesso, oneri e spese addebitati, costi occulti, anatocismo ed usura. Ad ognuno le proprie riflessioni). Le banche sono società private che mirano con ogni mezzo e trucco al proprio fine, che mai corrisponde a quello dei propri clienti, se così si possono ancora chiamare.
La partita andò avanti, finti soldi che giravano, in fondo ci si stava divertendo. Per un attimo incrociai lo sguardo del bimbo che aveva avuto il coraggio d’inorridire ascoltando il racconto del ventilatore. Stava seduto sul tappeto giocando ancora con i suoi nuovi Lego. Gli sorrisi, lui sembrò cupo, poi accennò una smorfia furba.
           Tornai alla partita di Monopoli anche se, sinceramente, continuai a pensare ad altre cose anche se per il ruolo che avevo nel gioco era difficile barcamenarmi fra quei pensieri e una possibilità o un imprevisto, fra Stazione ferrovie Sud e piazza Costantino, essere intento a non finire con un tiro sbagliato di dadi su viale Traiano, cosa che avrebbe significato dolori vista la quantità di edifici già costruiti sopra…
          Dopo una mezz’oretta mi alzai per fumare. I compagni di gioco mi guardarono stizziti, io uscii nuovamente sul balcone, il bimbo dei Lego ancora intento con il suo gioco. Altre due cose avrei voluto dirgli, solo due, dalle quali guardarsi e contro le quali combattere.
            La riserva frazionaria ed il signoraggio.
          Ma come puoi spiegare ad un bambino di quasi otto anni cose del genere? Impossibile. Rientrai e tornai al mio posto. Dopo qualche istante me lo trovai accanto, aveva lasciato i Lego sul tappeto, mi toccò un braccio sorridendo.
“Da grande avrò una banca…” affermò sicuro. La madre sgranò gli occhi sentita l’affermazione gongolando tronfia come un pavone che fa la coda. Il piccolo si sedette sulle mie gambe perché chiara era la sua volontà di aiutarmi con il denaro (finto) che maneggiavo. Lo feci fare e lui continuò a sorridere, io non riuscii a resistere, quello era il momento.
“Posso raccontarti un paio di cose che potrebbe esserti utili al tuo progetto di banca?” annuì con il capo contento anche se attorno mi guardarono con sospetto.
“E’ una cosa seria, nulla a che vedere con ventilatori e…”
“…cacca!” chiuse prontamente ridacchiando.
Alla parola magica cacca anche gli altri bimbi si fecero vicini. Presi una banconota del Monopoli da 100 e gli chiesi quanto valesse. Pronta la sua risposta: 100 soldi.
“Bravissimo: chi è il proprietario di questa banconota?”
“Il signor Monopoli”
“A cosa servono le banconote del signor Monopoli?”
“Beh…a giocare al suo gioco…”
Mi guardò perplesso anche se io annuivo con il capo rispetto alle sue sensate risposte. Gli altri attorno cominciarono a rumoreggiare.
“Sento che vi state spazientendo…ho una domanda per voi…chi fa le regole di questo gioco?”
In coro “Il signor Monopoli!”. E scoppiarono in una risata quasi di scherno.
            Dissi loro di essere molto impressionato da tanta perspicacia. Poi iniziai una riflessione.
“Quindi, tanto per capire, un giorno il signor Monopoli inventa un gioco del quale stabilisce le regole, stampa soldi che servono per giocare e che solo lui può stampare, decide in sostanza il loro valore anche se sono realmente pezzi di carta…”
Mi guardarono perplessi, forse mi ero spinto un po’ troppo oltre, ma il bimbo sulle mie ginocchia mi guardò e disse: “Quei pezzi di carta dovrebbero valere qualcosa…che ne so…valgono caramelle?”.
            Sinceramente restai spiazzato da quella deduzione.
“Caramelle! Risposta esatta.
             Quindi: 100 soldi del Monopoli valgono 100 caramelle…(e tutti annuirono convinti)…in realtà il signor Monopoli ha stabilito una regola diversa. Essendo lui quello che possiede il gioco e deciso le regole ne ha stabilita una che dice (e che nessuno può obiettare a costo dell’esclusione dal gioco) che 100 soldi del Monopoli valgono 100 caramelle più una, cioè 101 caramelle. E quell’una è un suo diritto in quanto proprietario del gioco. Quindi per giocare il prezzo è quello e tutti i giocatori si devono adeguare”.
Il bimbo mi guardò nuovamente. Aveva l’aria di chi aveva percepito un imbroglio.
“Io credo non sia molto corretto ciò che fa il signor Monopoli. Perché mi fa pagare una caramella in più per comprare un suo soldo da 100, cos’è quello, il costo per produrre quel soldo? Mi vorresti far credere che per fare quel pezzo di carta spende come per una caramella?”
Secondo momento d’imbarazzo di fronte ad una mente così acuta. Proseguii nel mio discorso.
“Le considerazione che hai fatto è corretta. Ma c’è dell’altro. Il signor Monopoli possiede pure altre banche. Una per ogni scatola del suo gioco. Ed ha imposto un’ulteriore regola (pena sempre l’esclusione dal gioco) che gli permette di usare il denaro che i giocatori depositano nella sua banca come meglio crede. I giocatori possono depositare denaro nella banca del Monopoli (per esempio 100 soldi che in realtà non corrispondono a 100 caramelle anche se ogni giocatore realmente per averli li ha pagati 101 caramelle) e guadagnare un interesse pari ad 1 soldo ogni 100. Altri giocatori che necessitano di denaro chiedono alla banca un prestito che però costa 6 soldi ogni 100 di interesse. Nello stesso istante il signor Monopoli ha fatto un’altra regola che gli permette di avere una quantità effettiva di banconote nella sua banca che equivale solo al 2% rispetto a quelle raccolte. Cioè, ogni 100 soldi depositati, lui è obbligato dalla regola ad averne sempre a disposizione al massimo 2”.
“E gli altri 98?” chiese sempre il bambino mentre i suoi coetanei erano lentamente tornati ai loro giochi oramai esausti da quel mio racconto evidentemente poco avvincente.
“Li usa come fossero suoi…”
“Ma non sono suoi, sono dei giocatori che li hanno depositati, lui dovrebbe solo controllare che nessuno li rubi…”
“Ma lui è il signor Monopoli, ha inventato il gioco e le regole, non c’è altra possibilità…”
         Il bimbo mi guardò con l’aria esterrefatta, poi sbottò.
“Ma è una cosa orribile! Più della cacca nel ventilatore! Io non posso credere che il signor Monopoli sia così cattivo…che si comporti come il più terribile dei ladri!..io non avrò mai una banca, non voglio che qualcuno mi potrà accusare d’essere un ladro!” e scese di colpo dalle mie ginocchia, lo sguardo nuovamente indignato, mi chiese se quella storia fosse vera. Mentii dicendo che non lo era, che il signor Monopoli realmente non esisteva, scosse il capo e preferì tornare ai suoi Lego. La madre ripose la sua bella coda da pavone, assunse un’espressione da circostanza, e tornò come nulla fosse alla partita.
         Evidentemente non aveva capito nulla di quel nostro discorso mentre il figlio continuò per un po’ a scuotere la testa.
       Per tutta la serata non mi degnò più d’uno sguardo.

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